Ispirandoci ad un classico della letteratura orientale, in questo momento di forzato isolamento, abbiamo pensato di costruire un nuovo appuntamento, che si chiamerà “Le mille e una Umanitaria”.
La nostra intenzione – mutuando lo stratagemma messo in piedi dalla astuta Shahrazàd, la promessa sposa del crudele sultano Shahriyàr – è quella di proporre una rilettura infinita (o quasi) di alcune vicende della storia del nostro Ente, facendo leva su quei valori di umanità, confronto, solidarietà che, oggi come ieri, devono contraddistinguere lo spirito della nostra comunità. Sarà una serie di appuntamenti il lunedì e il giovedì, non storie inventate, ma brandelli di vita, storie di donne, uomini e bambini, storie di dolore e storie di vittorie, storie di riscatto e storie di sconfitte, comunque tasselli di quel grande mosaico che fu, è, sarà, la nostra istituzione, non appena la situazione si normalizzerà.
I racconti scritti
Immaginatevi un drone (uno di quegli apparecchi che sembrano usciti da un romanzo di Asimov), che lentamente supera il cancello di via Daverio 7, taglia per il giardino dei platani e, sorvolando i tetti delle aule della Scuola superiore di mediazione linguistica, quasi plana nel cuore della Società Umanitaria, uno dei suoi magnifici chiostri rinascimentali, il chiostro dei Glicini. Il drone procede a scatti, come se cercasse qualcosa, una benché minima traccia di vita, un suono, un rumore. Niente. Non succede niente. Qualcuno potrebbe citare l’antico proverbio, il silenzio è d’oro, ma a noi – abituati a un viavai assiduo e costante di socie e frequentatori – questa tranquillità ci sembra impossibile, quasi irreale. Quasi. Nella prossima puntata, la stagione musicale del Teatro del Popolo all’Arena di Milano nel 1920 “Quei ventimila e più spettatori, pigiati in platea, addossati al Pulvinare come una saliente marea umana ed invadenti fuori dello steccato, hanno voluto attestare il loro soddisfacimento moltiplicando le chiamate all’indirizzo di tutti gli artisti”. Così il Corriere della Sera dell’11 luglio 1920 faceva la cronaca di un nuovo, incredibile, spettacolo organizzato dal Teatro del Popolo dell’Umanitaria, uno spettacolo che però non si era tenuto nel grandioso salone di via Fanti (contenente “solo” 2.000 posti), ma in luogo cult per l’immaginario milanese: l’Arena Civica. Nella prossima puntata, la storia di Gigetto e dei piccoli profughi durante la Grande Guerra Quella di Gigetto e dei piccoli profughi arrivati a Milano dalle zone di guerra nei primi mesi del 1918 è forse la vicenda più struggente di tutta la storia dell’Umanitaria. È una vicenda di cui non abbiamo mai parlato, narrata in un documento inedito sulla Casa degli emigranti (12 pagine), che pubblicheremo per intero in uno dei prossimi numeri della rivista Il foglio dell’Umanitaria. In realtà a qualcuno abbiamo parlato di Gigetto, e la sua storia è finita a margine della narrazione del recente romanzo di Luca Crovi, L’ultima canzone del Naviglio. Qui il Commissario de Vincenzi, il protagonista, a un certo punto incappa in un ragazzino che si è fatto da sé, in un laboratorio di pelletteria, anche se ha una mano sola e sull’occhio destro non toglie mai una fascia nera. Nella prossima puntata, la Società Umanitaria apre una Casa dei Bambini a Tiblisi (1920) C’è una storia che pochi conoscono, e ancora oggi ci stupisce un po’ per la temerarietà dimostrata dall’Umanitaria, un po’ per l’età della protagonista, un po’ per il periodo in cui si svolge. Nell’aprile del 1920 il Segretario Generale dell’Umanitaria, Augusto Osimo, risponde a Madame Nicoladze-Poliewktoff. “So che Ella sente la necessità di avere insegnanti che conoscano perfettamente il Metodo Montessori. L’Umanitaria potrebbe inviare alcune delle sue più esperte insegnanti a Tiflis, per dare a queste insegnanti una adeguata conoscenza del Metodo in un rapido corso di tirocinio della durata di un mese”. L’Europa è appena uscita dalla Grande Guerra; strade, ponti, campagne e città portano ancora i segni delle devastazioni belliche. L’influenza della spagnola sta colpendo migliaia di persone in tutta Europa. Ma tutto questo non spaventa una delle educatrici dell’Umanitaria, la giovane Lola Condulmari, già direttrice della Casa dei Bambini di viale Lombardia, a cui Osimo assegna il compito di portare l’esperienza del Metodo Montessori a migliaia di chilometri di distanza (per l’esattezza 3.600 km), nella città che oggi risponde al nome di Tbilisi, la capitale della lontana Georgia. Una donna sola in terra straniera; una donna indomita, mossa da un senso del dovere cristallino, che non si ferma davanti a nulla, soprattutto quando si tratta di bambini: “ho una sola certezza, che nel lavoro mettiamo la parte migliore della nostra anima”. Non sappiamo quanto sia durato il viaggio, ma la sua efficacia è immediata. Bastano poche lezioni (54 le insegnanti presenti) e “il Ministro della Pubblica Istruzione ha deliberato, con l’approvazione degli altri membri del governo, che l’insegnamento nelle scuole infantili ed elementari della città e provincia venga impartito secondo il Metodo Montessori”. È proprio la Condulmari a comunicarlo a Osimo, in una delle lettere con cui si tiene in contatto con l’Umanitaria. “Tale delibera dimostra pure che il mio lavoro ha dato buoni risultati, non Le pare? Se sapesse con quale amorosa trepidazione ho lavorato! Anche se non ho che i tavoli e le seggioline i risultati ottenuti sono veramente sorprendenti. La dottoressa Montessori sarà contenta del mio lavoro a Tiflis?”. La corrispondenza si chiude così, ma noi siamo sicuri che quell’esperimento abbia dato una gratificazione enorme a tutti i soggetti coinvolti, nel nome di un metodo che (anche grazie all’Umanitaria) ha cambiato il modo di crescere ed educare gli uomini del domani. Nella prossima puntata, l’opera dell’Umanitaria in Veneto contro l’analfabetismo (1921) Molti pensano che l’azione dell’Umanitaria sia stata circoscritta solo all’area di Milano e hinterland. Invece questa istituzione ha operato in molte parti d’Italia (e d’Europa). Con Regio Decreto dell’agosto 1921, il Parlamento istituiva un programma ad hoc, l’Opera contro l’analfabetismo, delegando questa azione a quattro importanti istituzioni operanti sul territorio nazionale, affinché creassero qualsiasi scuola in grado di combattere l’analfabetismo degli adulti (“e della popolazione sparsa e fluttuante” – così si legge in una comunicazione del tempo), con l’obiettivo di indirizzarli a pratiche di vita professionale, industriale e agricola. Tra le associazioni delegate (Consorzio Nazionale di emigrazione e lavoro, Scuole per i contadini dell’Agro romano, Associazione per gli interessi del Mezzogiorno) venne compresa anche la Società Umanitaria; riconosciuta per la sua autorevolezza in questo campo in tutto il Paese (dal 1903 in avanti, per le sue scuole erano già passati quasi 30.000 allievi e allieve) e per l’azione educativa già compiuta in varie regioni del Nord e del Sud, all’Umanitaria venivano subito affidate le provincie di Bari, Foggia e Lecce: in totale 227 scuole serali, 12 diurne e 11 scuole festive ed estive. La rivista “Corrispondenza settimanale dell’Ufficio dell’emigrazione” è consultabile in toto nella sito della Biblioteca Digitale Lombarda, a questo link: www.bdl.servizirl.it Nella prossima puntata, la tutela dei diritti dei lavoratori delle campagne Due settimane fa, sul quotidiano la Repubblica, il sindacalista e attivista Aboubakar Soumahoro, da anni in prima linea nella battaglia contro il caporalato al Sud, ha condannato una situazione a dir poco allarmante: “C’è una polveriera della miseria lungo la strada del cibo, che parte dal seme e arriva ai riders e alle cassiere. Figure spesso sfruttate, precarie. Persone a bassissimo reddito, nel Nord come nel Sud, che anche oggi continuano a lavorare nei campi in condizioni disumane, senza mascherine, senza protezioni”. Una situazione assai simile a quella descritta in una Commissione parlamentare del 1906 sulle condizioni dei lavoratori della terra nel Mezzogiorno dove, ha ricordato Soumahoro, “si parlò di condizioni disperate, segnate dallo sfruttamento e da salari irrisori”.
Nella prossima puntata, i ricordi di uno studente dei corsi di fotografia (1964). Negli anni Sessanta, tra le tante attività didattiche della Società Umanitaria, c’è una Scuola modernissima (benché sia stata fondata nel 1904): si chiama Scuola del Libro e organizza corsi di grafica, fotografia, tipografia, comunicazione visiva. È una scuola speciale, diurna e serale (ma ci sono anche i corsi festivi), che funziona dalle otto del mattino alle dieci di sera: ogni giorno vi entrano circa cinquecento allievi (oltre ai duemila di altre scuole e corsi dell’Umanitaria). La tipologia degli allievi è varia, per età e condizione professionale: giovani e meno giovani, principianti o apprendisti, moltissimi provenienti da regioni poco industrializzate in seguito alla grande ondata migratoria di quegli anni, anche grazie alla vivacità del mercato del lavoro. Decisiva la scelta dei docenti (uno su tutti, Albe Steiner, il direttore) e degli istruttori, una settantina, spesso mal pagati, ma dediti al proprio mestiere, e orgogliosi di poterlo trasmettere in una delle scuole storiche d’Italia, forse la più importante. Uno degli allievi di quegli anni, il fotografo Giancarlo Maiocchi (oggi conosciuto come “Occhiomagico”), ci racconta la sua esperienza. Nella prossima puntata, Rosa Genoni e la storia di una sartina. “Dicevano che ero stupida, ero solo ignorante”. Non sono parole di Rosa Genoni, l’ex sartina di Tirano entrata di diritto nell’Olimpo della moda. Ma se consideriamo la sua storia, il suo percorso, i traguardi raggiunti nella sua vita potrebbe averlo pensato anche lei, che conosceva bene le drammatiche condizioni di vita a cui erano costrette le centinaia di ragazzine sfruttate anche in una città proiettata verso il futuro come Milano. “Dicevano che ero stupida, ero solo ignorante” non ce la siamo inventata; è una frase che abbiamo sentito dalla viva voce di una giovane allieva delle Scuole professionali femminili dell’Umanitaria, la signora Ermelinda Parenti, che si diplomò in sartoria durante il fascismo, proprio negli anni in cui Rosa Genoni stava cominciando a sentire anche sul suo insegnamento la cappa di piombo delle camicie nere. Nella prossima puntata, Riccardo Bauer tra carcere e confino. Il protrarsi del periodo che stiamo vivendo continua a mettere a dura prova la nostra resistenza, distorcendo i punti cardinali della nostra vita: isolamento, blocchi, chiusure, controlli, migliaia di perdite umane. Nella ricorrenza del 75° anniversario della Liberazione ci sembrava giusto puntare il nostro obiettivo su un’altra resistenza, quella con la R maiuscola. E ricordare il vissuto di un personaggio a noi caro, Riccardo Bauer, finito in carcere per antifascismo a partire dal 1926, dopo aver collaborato a Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e aver organizzato il movimento di “Giustizia e Libertà” insieme a Ernesto Rossi, Ferruccio Parri e altri più giovani, molti compagni di lotta prima, e di prigionia poi. Nella prossima puntata, l’estasi di Toscanini al Teatro del Popolo (1922). Su una cosa i suoi biografi concordano: non ammetteva che l’acustica non fosse perfetta. Eppure, quando gli era stata prospettata l’occasione di dirigere l’Orchestra della Scala nel “capannone” del Teatro del Popolo, il più grande direttore d’orchestra italiano del ‘900 non si era fatto negare: forse perché non voleva mancare l’occasione di “andare alla plebe e farla diventare popolo”. Era stato forse lo stesso impeto artistico che lo aveva indotto a dirigere, nel 1901, la prima mondiale del Mosè, oratorio dell’amico compositore Don Lorenzo Perosi, in un altro teatro che teatro non era: il salone della chiesa di Santa Maria della Pace, in via San Barnaba 40 (ai tempi in cui l’Umanitaria aveva ancora la sua sede operativa in via Manzoni 9). Nella prossima puntata, Albe Steiner nei ricordi di un allievo Sono passati più di cinquant’anni, ma i ricordi di quella stagione, con le aule dei serali che brillavano in lontananza, le decine di biciclette appese in fila dietro il cortile dei Platani, le aule e i chiostri invasi di manifesti e fotografie durante le tradizionali mostre della Scuola del Libro di giugno, sono nitidi, incisi nella memoria come un clichè tipografico. Lui è Armando Milani, uno dei più famosi designer italiani e internazionali, allievo di Albe Steiner, Massimo Vignelli, Giulio Confalonieri e Antonio Boggeri, insomma il “gotha” della grafica e della comunicazione visiva di quegli anni. Parla pacatamente l’Armando, mettendo in perfetto ordine i momenti salienti di quella esperienza professionale, emozionante, trascinante, unica nel suo genere; ricorda bene l’atmosfera che si viveva in quella scuola, la mitica Scuola del Libro, dove potevi seguire i corsi dei migliori professionisti del settore, confrontandoti con la loro tecnica, condividendone il pensiero, crescendo in una palestra intellettuale che è stata decisiva per la sua carriera. E la gratitudine, il senso di riconoscenza verso quegli uomini, verso quel tipo di insegnamento, lo si percepisce anche in quegli occhi, che ogni tanto si velano di malinconia, la malinconia per un mondo che non c’è più. Qui alcune impressioni a caldo della sua esperienza a quella che ama definire la Scuola Umanitaria. Per conoscere i lavori di Milani il sito è www.armandomilani.com Nella prossima puntata, la città del futuro? Riparte dal 1905 Il 4 maggio scorso, nell’edizione milanese del Corriere della Sera, uno dei più famosi architetti italiani, nonché presidente della Triennale, ci mette al corrente di cosa “bolle in pentola” nel capoluogo lombardo, immaginando il futuro di Milano “a partire da quartieri autosufficienti, dove i cittadini trovano i servizi essenziali in 15 minuti”. Per Stefano Boeri la città è “una somma di borghi storici, da Baggio all’Ortica”, e nei prossimi mesi dovrà fare i conti con “il concetto dei nuclei di identità locale”, in centro come in periferia (concetto da lui espresso in più occasioni e da molto tempo). L’idea di una città che sappia guardare oltre le vecchie mura spagnole, al di là della circonvallazione, spingendo l’acceleratore anche sulle zone più decentrate e difficili, è una sorta di manifesto delle buone intenzioni, che attende – da anni – un nuovo corso: più rapido ed efficiente.
Nella prossima puntata, 1946. Un corso di cucito per salvarsi la vita. Il 17 giugno 1946 un gruppo di giovani donne scrive al Commissario Straordinario della Società Umanitaria. È una lettera dettata dal cuore, in un momento delicatissimo per la città e per il paese. Milano è ancora in ginocchio, stravolta dai bombardamenti, ma tra detriti, lutti e ferite si respira una nuova voglia di ricominciare, rilanciata dal concerto di Toscanini alla Scala appena ricostruita (11 maggio). Nella prossima puntata, l’Umanitaria all’Expo del 1906. Sette milioni di visitatori. 35.000 espositori rappresentativi di 31 nazioni. Un’area espositiva che si estendeva su due aree, collegate da un’ardita ferrovia elettrica sopraelevata: dal parco del Castello Sforzesco alla Piazza d’Armi. Un Comitato organizzatore formato da tutti i principali attori della vita politica, economica e culturale. L’Esposizione Internazionale del Sempione fu l’evento mondiale del 1906 i cui contenuti – racchiusi nel titolo “La scienza, la città e la vita” – non si limitavano solo alla classica esposizione di macchinari e prodotti, ma mettevano per la prima volta al centro gli uomini, la società, il lavoro, in un’ottica di innovazione, ma anche di solidarietà: in cinque mesi (dal 28 aprile all’11 novembre) il mondo della politica, della scienza, dell’imprenditoria faceva il punto sul passato, guardava ai problemi del tempo, immaginava le dinamiche del futuro. Una particolarità: fino ad oggi si pensava che l’edificio dell’Acquario Civico di Milano fosse l’unico padiglione sopravvissuto all’Expo (tutte le 225 strutture espositive vennero smantellate a fine manifestazione); in realtà, anche il padiglione dell’Umanitaria esiste ancora, ma non è più a Milano, perché è stato smontato e trasportato dal costruttore nel parco della sua residenza estiva ad Anzola, in provincia di Novara. “Chi ha visto l’Umanitaria, chi ha conosciuto il suo presidente, si augura che un giorno Milano tutta diventi così: veramente moderna”. Si chiude con queste parole il reportage di uno degli scrittori italiani più tormentati del ‘900, Luciano Bianciardi, un reportage uscito sulle pagine della rivista del Touring Club Italiano “Le vie d’Italia” nel febbraio del 1961, un anno prima della pubblicazione del famoso La vita agra, dieci anni prima della scomparsa dello scrittore (nato nel 1922). Nella prossima puntata, memorie di educatrici del Metodo Montessori. Fa un ceto effetto soffermarsi oggi su cosa scrivevano all’inizio del ‘900 le educatrici che la Società Umanitaria aveva scelto a dirigere degli asili particolari, quelli che si chiamavano giustamente Case dei bambini, perché al loro interno si seguiva una pedagogia particolare, lontana anni luce dall’educazione scolastica del tempo: era un metodo concepito e sperimentato da Maria Montessori, la più grande pedagogista dell’era moderna. Le impressioni che riproduciamo provengono dai resoconti periodici che queste maestre inviavano all’Umanitaria per rendere conto della vita condotta dai bambini – dai tre ai sei anni di età – che avevano la fortuna di seguire il Metodo Montessori (lo spazio a disposizione – gli asili di via Solari, viale Lombardia e via San Barnaba – non permetteva di coprire tutte le richieste, che ogni anno superavano di molto la cinquantina dei posti a disposizione delle famiglie operaie).
Nella prossima puntata, una lettera di Paolo Grassi a Riccardo Bauer. Due personalità diverse. Due caratteri forti. Due mostri sacri della cultura italiana del ‘900. Da una parte il co-fondatore, e direttore, del Piccolo Teatro (dal 1947 sino al 1972), poi Sovrintendente della Scala, infine presidente della tv di Stato. Dall’altra il fautore della rinascita della Società Umanitaria, un grande intellettuale, un appassionato educatore civile. Insomma, Paolo Grassi (1919-1981) e Riccardo Bauer (1896-1982). Nella prossima puntata, aria di rotative in via Daverio. Chi ha potuto vedere il film “The Post” con Meryl Streep e Tom Hanks dedicato ad alcune inchieste del famoso quotidiano statunitense, preso dalla trama forse non avrà fatto caso ad alcune immagini verso la fine, quando Hanks deve decidere il titolo del giornale e non può più indugiare, perché nella sala delle rotative i “proto” premono per impaginare la prima pagina. Quello del compositore era un mestiere molto delicato e ricercato, perché il tecnico doveva essere in grado di correggere il testo in tempo reale – allungando o accorciando le frasi – in modo da rientrare esattamente nelle colonne previste, dato che i caratteri avevano un vero corpo di piombo, una loro grandezza e non si poteva slargare o stringere come accade ora (con un semplice clic).
Chi conosce la sede centrale dell’Umanitaria, in questi ultimi anni si sarà certamente accorto della trasformazione del giardino dei Platani, adiacente l’ingresso di via Daverio 7; quello che fino a una decina d’anni fa era un giardino disordinato, con un po’ di verde, la vecchia pista di allenamento per la corsa, qualche parcheggio per i dipendenti, due o tre lampioni, gli alberi centenari, oggi è un magnifico giardino con un camminamento in marmo bianco, che delimita e rende fruibili gli spazi verdi con filari di alberi da frutto, vivacizzati da aiuole di azalee, di ortensie, di rose e forsythie, il tutto sotto lo sguardo vigile e protettivo dei maestosi platani centenari. Quel giorno il disertore francese cadde a fagiolo. Sacha cercava un contadino che potesse mettere a frutto quel terreno incolto, trasformandolo in un bell’orto a vantaggio della schiera di disperati che in Umanitaria pranzavano tutti i giorni. Quello che accadde lo ricordò la stessa Ravizza, quando il francese se ne andò, risollevato da sé medesimo, dopo essere stato collocato nel podere di un ricco signore. Che sapete fare? – Labourer la terre; c’était mon métier avant d’entrer à l’armée. – Venite con me, disse al giovane disertore e lo condusse nell’orto. – Voulez vous défricher ce terrain ? – Oui, je veux bien. Detto fatto. Quando i giornali si occupano di periferie e di case popolari, lo fanno purtroppo per denunciare le condizioni di vita di famiglie e residenti: ringhiere e pianerottoli a pezzi, topi in cantina, ascensori fuori uso, e quel cancro delinquenziale che prende il sopravvento e dell’abusivismo fa reddito. Un caso anomalo è quello che riguarda un quartiere speciale, il I° Quartiere Operaio Solari, costruito dalla Società Umanitaria in tempi di penuria di case, e di case malsane.
Con la fine delle scuole, ogni anno, le famiglie si trovano di fronte al dilemma di come regolarsi con i bambini e gli adolescenti. Quest’anno il problema è ancora più sentito, perché colpisce indistintamente famiglie più o meno agiate, preoccupate che le iniziative socio-ricreative abbiano tutte le carte in regola per tutelare la salute dei piccoli partecipanti, la sanificazione dei locali, le distanze di sicurezza di gruppi numerosi, dove i bambini spesso non seguono le regole, ma solo i loro istinti primordiali… Pensando a come si sta organizzando l’Amministrazione civica per poter offrire alle famiglie “una pluralità di occasioni, con una regia forte per le proposte degli operatori pubblici e privati che sono la trama del tessuto della città” (parole dell’Assessora Laura Galimberti), ci siamo ricordati di quando esistevano le case-vacanze, poi colonie estive, con l’oratorio o insieme ai boy-scouts, dentro e fuori regione: per un mese le famiglie potevano tirare il fiato, mentre i bambini vivevano all’aria aperta, imparando a conoscere la natura e tutte le sue declinazioni. Fu proprio durante la Grande Guerra, che i dirigenti dell’Umanitaria pensarono che fosse necessario trovare una forma tangibile di sostegno alle famiglie operaie milanesi, prendendosi cura sia dei ragazzini che seguivano le scuole professionali, sia dei bambini e delle bambine che frequentavano le Case dei Bambini. Si cominciò nell’estate del 1915, individuando una villa nel Varesotto, Villa Verga a Cocquio Sant’Andrea (con annesso orto e fabbricato rurale), che venne appositamente riorganizzata ed allestita per poter ospitare durante il trimestre estivo un centinaio di adolescenti, sempre scelti in considerazione delle loro condizioni fisiche ed economiche, periodicamente visitati e pesati dal medico interno alla Colonia, accompagnati dalle loro educatrici e dalle loro insegnanti (nel 1918 si aggiunse una villa a Cormano, “La Gioiosa”, gestita insieme alla Federazione Milanese delle Cooperative). I piccoli ospiti alternavano le ore della loro vita quotidiana con passeggiate e giochi, ma anche con il lavoro individuale e per la casa; tutti collaboravano nella pulizia dei dormitori, dei refettori, del parco, nelle riparazioni ai mobili (i ragazzi), nel lavoro di cucina e nelle riparazioni alla biancheria (le ragazze). Questo un piccolo estratto della visita di un giornalista del Corriere della Sera nel settembre 1915. “Tutto rivela una nettezza, un ordine, una semplicità non priva d’eleganza, una compiutezza di comodi e di provvidenze, una preparazione, insomma, ed una organizzazione meravigliose. Gli ospiti stanno bene? Ottimamente, lo ha detto la bilancia. Certi piccoli sono cresciuti, durante la dimora in villa, di uno, due e perfino tre chili! Le ragazze... basta vederle. E se non basta, si può – sia pure con un tantino d’indiscrezione – sfogliare il diario, ove ciascheduna segna schiettamente le impressioni d’ogni giorno. Quando sono arrivate, sono state prese da una follia di gioia; e non possono pensare al giorno della dipartita, che avverrà non senza pianto e rimpianto. La vita dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi è regolata secondo un determinato piano che, però, non ha nulla di noioso, di pesante o di meccanico. I riposi si alternano alla lettura, al lavoro, al disegno (copia dal vero), alla compilazione del diario e alla corrispondenza con le famiglie. Visitando la Colonia di Cocquio si ha l’impressione di trovarsi in mezzo ad un’oasi di pace e di libertà”. Una summer school sana e ricostituente, per il corpo e per lo spirito. Sono passati più di venticinque anni da quando Ricardo Fuks, regista argentino da poco approdato a Milano, un passato professionale da esule in Inghilterra Israele e quindi Italia, propose all’Umanitaria un laboratorio “multietnico” dove raccogliere e mettere in rete esperienze artistiche e culturali, metodi e tecniche di professionisti o neoprofessionisti del teatro, provenienti da diversi paesi e residenti a Milano: un melting pot tra giovani teatranti (attori, registi, scenografi, scrittori) che avrebbe trovato in “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez un terreno di espressione e di confronto ideale. Un tipo di esperienza che a livello teatrale aveva già un suo modello in diversi paesi del mondo, a cominciare dall’inimitabile Peter Brook e dal suo Centro internazionale di creazioni teatrali a Parigi. Da quando abbiamo inaugurato questa rubrica (che il “Corriere della Sera” ha definito pillole di memoria), in più d’una occasione ci siamo soffermati a ricordare alcune figure di bambini e adolescenti che attraverso le molteplici opere di didattica e di assistenza dell’Umanitaria hanno potuto cambiare il corso della loro esistenza (ne ricorderemo tanti altri nelle prossime settimane, perché la fila dei ricordi è ancora lunga).
Nella prossima puntata, living with the enemy. È una delle forme più aberranti di prevaricazione, la violenza fatta da chi si proclama compagno di una vita, e spesso si trasforma nell’incubo peggiore: schiaffi, urla, pugni, spintoni, violenze sistematiche, abusi, delitti. L’elenco della violenza che può instaurarsi tra uomo e donna, dentro e fuori le mura domestiche, è lungo, ignobile, devastante. Soprattutto quando ci sono di mezzo i figli, i figli che tremano al solo aumento di tono della sua voce, a quella mano che si alza, a quel volto sorridente che diventa paonazzo e poi esplode in una furia cieca, inarrestabile. Uno degli spazi più sfruttati in Umanitaria (oltre al magnifico Salone degli Affreschi) è quello che abbiamo chiamato Auditorium: quello che ai tempi delle nostre scuole professionali era una palestra attrezzata, è stato poi trasformato in uno spazio polifunzionale, dove ospitare incontri, convegni, concerti, attività didattiche con le scuole, alcuni corsi Humaniter per il tempo libero.
Quel 14 ottobre 1997 non lo dimenticheremo mai. Doveva essere la classica prolusione di inizio anno, ma gli eventi (l’attribuzione del Premio Nobel per la Letteratura) trasformarono quell’incontro in un evento straordinario: per noi organizzatori, per gli iscritti dei corsi Humaniter per il tempo libero, per la città. Con un unico handicap: l’arrembaggio alla sala, iniziato più di un’ora prima rispetto l’orario concordato, in barba agli inviti e alle prenotazioni. Così, alla presenza di una calca umana che oggi avrebbe fatto intervenire gli agenti di Pubblica Sicurezza, con giornalisti abbarbicati sul palco, troupe televisive che filmavano dall’esterno perché l’ingresso era ormai invalicabile, da formidabile saltimbanco della scena, rispetto alla scaletta originaria il “giullare che ha fustigato il potere e sostenuto la dignità degli umili” (così si leggeva in una parte della motivazione del Premio) decise di saltare le premesse e “imbrogliare” le carte, instaurando un dialogo fitto con il pubblico, ritmato da digressioni politiche e brani di un repertorio teatrale che ha reso Dario Fo quello che tutti noi abbiamo conosciuto, amato, rispettato. Foto di Lorenzo Ceva.
“Ne avrà le chiavi per il tempo che vorrà. E vedremo poi se è possibile aiutarla anche per altro verso, poiché il soggetto e lo spirito del quadro ben si conciliano con le nostre finalità, che lei del resto condivide non da oggi”. Il destinatario di queste poche righe – riportate da Virgilio Brocchi, scrittore di fede socialista, nel romando “Luci di grandi anime” – è uno degli artisti che ha influenzato fortemente le sorti della pittura e della scultura del XX secolo, Umberto Boccioni. Nella prossima puntata, piccoli registi crescono in Sardegna Lui, il vecchio minatore, non c’è più. Ma senza quel laboratorio didattico, senza quelle domande semplici fatte dal nipotino, scelte insieme ai compagni della 3ª D della Scuola Media n. 2 “G. Zanella” di Carbonia, la sua vita, la sua memoria, la sua esistenza si sarebbero disperse, perdute per sempre. Per fortuna, nella Sardegna di quarant’anni fa, c’era una sede distaccata della Società Umanitaria, nel centro di Carbonia, che da una ventina d’anni si occupava di cinema, di memoria, di educazione. Furono gli operatori di quel CSC (Centro Servizi Culturali) che decisero che anche il mondo della scuola dovesse essere coinvolto nelle attività cinematografiche, ma non in maniera passiva (come semplice pubblico), ma in maniera attiva, aiutando le classi di ogni ordine e grado ad impratichirsi con nuovi strumenti di comunicazione visiva, quelli che oggi farebbero sorridere i ragazzi che sanno usare abitualmente tablet e ipad. Oggi non è abitudine farlo, ma un tempo scrivere ai propri insegnanti, anche a quelli che facevano la voce grossa, era una consuetudine molto praticata, che serviva un po’ come un esame di coscienza, un po’ per dimostrare stima e affetto. In questa puntata della nostra rubrica (l’ultima), abbiamo montato una serie di lettere di alcuni adolescenti, negli anni immediatamente successivi alla fine della Grande Guerra, gli anni in cui la Società Umanitaria ideò l’Università delle Arti Decorative, un istituto di perfezionamento che gestì con ampio successo fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
01. Scenari di oggi, scenari di ieri
Bisogna fare un salto nel passato per ritrovarsi in una situazione analoga, in una Umanitaria spettrale, senza suoni, senza rumori, senza nessuna di quelle duemila persone che ogni giorno ne varcavano i confini per mettersi al lavoro. Anzi, in quel tempo di 77 anni fa, nella Milano del 1943 dopo i raid alleati, lo scenario innanzi agli occhi è devastante, ben più disastroso di quello di oggi. Le foto tratte da una documentatissima relazione del tempo sono agghiaccianti: aule distrutte, macchinari bruciati, chiostri bruciati, tetti scoperchiati, macerie fumanti. Un terzo dell’Umanitaria non esiste più e in quel 33% è andato in fumo per sempre un incredibile patrimonio d’arte fatto di disegni, di gioielli, di sculture, di vetrate artistiche, di ferri battuti, di mobili, di volumi.
Eppure nemmeno quelle bombe maledette ci hanno fermati. Nel giro di un decennio – dieci anni duri, difficili, davanti a problemi enormi, quasi insormontabili – da quelle macerie fumanti è emersa una nuova vita, una Umanitaria diversa, dinamica e solidale. Anche oggi, una nuova Milano ci aspetta dietro l’angolo, e molto più velocemente che nel secondo dopoguerra vi aspetta una Umanitaria tirata a lucido, tutta da riscoprire. Oggi, come allora, la casa dell’Umanitaria è silente, ma l’Umanitaria non resta silenziosa. La sua voce, sempre in piena sintonia con le idee del suo visionario fondatore, non si è mai fermata e oggi scorre anche attraverso nuovi modi di comunicare.
02. Tutti all’opera per il Teatro del Popolo
Che la musica fosse cambiata ce ne si era accorti fin dalla settimana prima, quando tutta la città era stata sorvolata da un areo della S.A.I.A.M., che aveva lanciato dal cielo 50.000 volantini pubblicitari per promuovere la nuova stagione artistica del Teatro del Popolo, una stagione di opera lirica da tenersi all’aperto per poter coinvolgere migliaia di cittadini. In programma due sole opere (con svariate repliche), ma di immenso richiamo: l’Aida di Giuseppe Verdi, diretta dal Maestro Vittorio Gui, e la Norma di Vincenzo Bellini, diretta dal Maestro Gennaro Abbate.
Il progetto dell’allestimento sembrava semplice: un enorme palcoscenico di oltre tremila metri quadrati, con obelischi alti 23 metri, e una platea con almeno 15.000 posti a sedere. Semplice, no? Se non fosse che proprio quando si dovevano iniziare i lavori, proprio nella sala che solitamente era adibita a palcoscenico del Teatro del Popolo, la Camera del Lavoro aveva indetto lo sciopero di falegnami e carpentieri. Che fare? Nel giro di poche ore, tra le tante cooperative che affollavano la Casa del Popolo dell’Umanitaria si individua chi, senza fare il krumiro (senza cioè mettere in discussione le rivendicazioni dei compagni), si può mettere al lavoro: la Federazione dei lavoranti in legno. La cronaca di quei giorni frenetici l’abbiamo trovata su un articolo dell’Avanti! del 10 luglio 1920, intitolato efficacemente “Il Soviet dell’Arena”.
Eccone ampi stralci: “Abbiamo detto che la Società Umanitaria ha compiuto un miracolo, trasformando siffattamente l’Arena. Ma, se il miracolo fu possibile, si deve agli operai, a 120 carpentieri e falegnami, che in pochi giorni compirono quel che nessun’altra ditta avrebbe forse saputo compiere. Il nuovo Teatro del Popolo è stato infatti costruito e da essi solo, senza la guida di padroni. Ma se non c’erano i capi padroni, c’era il capo operaio; se non c’erano le macchine e gli argani, c’era la fede, vi era l’entusiasmo di questi compagni che, mentre perdurava lo sciopero, vollero consacrare la loro opera al Teatro del Popolo. Era breve il tempo disponibile? Ed essi lavoravano 14 e 16 ed anche 20 ore al giorno. Vi erano difficoltà, che per altri sarebbero riuscite insuperabili? Ed essi, questi 120 giovanotti, le affrontarono impavidi. Fu costituito il Soviet dell’Arena. Disciplina ferrea. Entusiasmo fervido. Laboriosità instancabile (...). Si voleva che il Teatro del Popolo sorgesse per le braccia del popolo. E sorse. Ed è meraviglioso”.
Il popolo accorse numeroso: in poco più di un mese, oltre 200.000 persone.
03. 1918. Gigetto e i piccoli profughi assistiti alla Casa degli Emigranti
Quel ragazzo è Gigetto, un piccolo profugo – ha solo 7 anni – di cui Crovi riesce ad immaginare la vita dopo le cure amorose ricevute da una donna straordinaria, Ines Crippa, l’angelo della Casa degli emigranti, il padiglione che l’Umanitaria aveva costruito nel 1907 dietro la stazione centrale di Milano e che durante la Grande Guerra era divenuto un avamposto di assistenza per profughi, rimpatriati e disperati, che fuggivano dalle zone di guerra: e qui, di giorno e di notte, di ora in ora, giungevano “a torrenti grossi, rumureggianti, inesauribili come corrente che prendesse vita dal mare”. A migliaia arrivavano, a migliaia… cenciosi, affamati, carichi delle poche robe che avevano potuto gravarsi sulle spalle, spingendo avanti vecchi curvi e donne spaurite, a migliaia arrivavano, trascinandosi dietro bimbi e fanciulli anche in tenera età.
In questo esodo incessante di disperati e poveri cristi un giorno la signorina Crippa individua un bimbetto, un piccolo martire della sventura (uno di quei 25.040 bimbi dispersi che arrivarono a Milano durante il 1918). È arrivato da solo in treno, lanciato su un vagone da una mamma disperata che non ha più rivisto; con fatica si scopre che è partito da Udine, dove era ricoverato per le ferite dovute allo scoppio di una bomba: non ha un occhio e le dita della mano destra. Come tutti gli altri bambini viene sfamato, rivestito, curato e assistito, settimana dopo settimana, fino a quando non deve lasciare quella casa per essere alloggiato in una delle tante strutture di cui Milano si è dotata per arginare l’esodo continuo.
La scena del distacco dalla sua nuova mamma, la signorina Ines, è un colpo al cuore, una ferita che si aggiunge alle cicatrici dei tempi passati. Noi non sappiamo cosa sia successo a Gigetto, dopo. Le carte d’archivio non bastano a seguire tutti i casi di quell’anno nefasto, dove vennero assistite oltre 150.000 persone. Ma ci piace credere che quello immaginato da Luca Crovi sia un futuro possibile, e che Gigetto abbia potuto imparare un mestiere e mettere su famiglia. Affetti, lavoro e solidarietà, i valori-cardine della Società Umanitaria.
04. Quando l’Umanitaria aprì una Casa dei Bambini a Tbilisi (1920)
05. L’azione dell’Umanitaria contro l’analfabetismo in Veneto (1922)
Oltre ad occuparsi della Puglia, l’Ente milanese veniva presto incaricato di curare anche l’organizzazione delle scuole diurne, serali, festive e di complemento in tutto il Veneto, provvedendone alla direzione didattica e alla vigilanza tecnica generale: in totale 139 scuole serali, 9 diurne, 6 festive, nelle province di Padova, Rovigo, Treviso, Udine e Verona. Tra i pochi documenti d’archivio di questa particolare azione dell’Umanitaria c’è un numero della rivista “Corrispondenza settimanale dell’Ufficio dell’emigrazione” del 30 giugno 1924, dove abbiamo trovato la relazione annuale inviata all’Umanitaria da Pietro Gusèo, a cui fu affidata la direzione generale di tutte le scuole in Veneto dal 1922 fino alla fine degli anni Venti.
“La frequenza fu in generale buona: su 139 scuole, 126 si chiusero con esame e su 5.743 inscritti, 3.899 si presentarono agli esami. Un vecchio valoroso Ispettore, che da principio accolse con scetticismo la riapertura delle scuole serali, mi scriveva che nella sua circoscrizione la scuola serale fu dovunque accolta come una benedizione, come una insperata fortuna. È commovente entrare in quelle scuole affollate di giovani e di uomini maturi, quasi tutti umili lavoratori dei campi, i quali, dopo aver faticato tutta la giornata, si adattano volonterosamente ad un altro lavoro di due ore e mezza per migliorare sé stessi”. E parecchi di quei contadini dovevano percorrere lunghi tratti di strada, difficile e faticosa; quelli di Vestenavecchia (Verona), ad esempio, dovevano camminare per cinque ore, fra andata e ritorno, lungo sentieri oscuri, dirupati, spesso coperti di neve. Nello scorso carnevale, in alcuni paesi sulla destra del Piave e nel Friuli, in cui la passione per il ballo è dominante, gli alunni disertavano le sale da ballo per frequentare puntualmente la scuola, di cui sapevano apprezzare il grande beneficio. Importantissima, specialmente nella scuola per adulti, è la scelta del maestro, perché l’adulto che entra nella scuola elementare, senza aver appreso neanche il leggere e lo scrivere, deve trovare nel maestro la persona socievolmente operosa, che abitui a vedere le cose obbiettivamente, ad innalzare lo sguardo da terra per gustare la bellezza”.
Ancora una volta, il metodo dell’Umanitaria si dimostrava vincente, affine al pensiero del Ministro Luigi Credaro: “la scuola non si limiti a preparare alla vita, la scuola deve introdurre alla vita”.
06. Per la tutela dei diritti dei lavoratori nelle campagne
Leggendo queste parole ci si è accesa una lampadina: sfruttamento, caporalati, salari irrisori, igiene precaria… Il flash back è quasi automatico e ci ha aperto un mondo – quello di braccianti, mondine, lavoratori agricoli – di cui si occupò fin dal 1897 la Società Umanitaria, istituendo un apposito gruppo di lavoro, l’Ufficio Agrario, che formulò un vasto programma d’azione per migliorare le condizioni di vita nelle campagne. Grazie al suo sviluppo e al suo consolidamento in città si passò all’apertura di una serie di uffici decentrati (a Binasco, Abbiategrasso, Melegnano, Melzo, Lodi, Codogno, con le succursali di S. Angelo Lodigiano e Casalpusterlengo), dove gli uomini dell’Ufficio Agrario – Massimo Samoggia, Luigi Minguzzi, Cesare Vassallo, Nino Turati e Carlo Porcellini – misero a punto una serie di iniziative per incrementare l’istruzione in campagna mediante scuole d’arti e mestieri, per migliorare l’igiene e l’alimentazione (combattendo la pellagra, la malattia dei poveri), e soprattutto per lottare contro la disoccupazione.
Il primo passo era il lavoro, procurare gratuitamente il collocamento alle migliori condizioni possibili e poi garantire tali condizioni, vigilando assiduamente (ricorrendo a ripetute ispezioni) affinché i contratti di lavoro fossero equamente e lealmente osservati; fu perciò creata una ulteriore rete di uffici di collocamento direttamente collegati alla sede milanese, e da essa inglobati in un programma ancora più vasto, quello del consorzio tra Camera del Lavoro, Unione Femminile e Società Umanitaria operante sul territorio di Milano e provincia con un servizio gratuito, che garantì dal 1906 al 1913 un posto di lavoro a oltre 80.000 lavoratori e lavoratrici.
Su di un punto tutte le sedi lavorarono quasi all’unisono: la lotta dura e senza esclusioni di colpi contro l’ignobile piaga dei cosiddetti mediatori (i caporali odierni), speculatori di ogni risma, che si approfittavano dell’ingenuità dei disoccupati, arricchendosi alle loro spalle. Nel giro di pochi anni, l’opera capillare di tutela e di assistenza portò a ottimi risultati, perché di quei mediatori senza scrupoli non era rimasto “che il triste ricordo delle loro piraterie”. L’azione intrapresa dal team dell’Umanitaria aveva raggiunto il suo scopo, facendo sviluppare una vera coscienza di classe tra i contadini, rendendoli consapevoli dei loro diritti e degli strumenti per acquisirli.
07. I ricordi di uno studente dei corsi di fotografia (1964)
“Quando arrivai all’Umanitaria avevo quindici anni. In realtà avrei voluto fare il disegnatore pubblicitario, perché mi piaceva il lavoro di Munari. Ma quando mi presento per l’esame attitudinale e mi parlano della fotografia nei termini di “scrittura con la luce”, ne sono stregato: dal buio alla luce. Ricordo bene l’atmosfera della scuola, anche perché non aveva niente a che vedere con la scuola normale. All’Umanitaria era tutta un’altra cosa, era davvero una scuola-laboratorio, con le solite materie classiche (italiano, storia, inglese, storia dell’arte), ma soprattutto decine e decine di ore per le esercitazioni pratiche, dove cattedre e banchi scomparivano, perché si lavorava accanto al proprio insegnante, senza sentire il distacco per il suo ruolo, ma con il rispetto di personalità che vivevano per l’insegnamento: ricordo Antonio Arcari e le sue lezioni su forma e colore, Otello Bellamio nella sala di posa, Gianfranco Mazzocchi e la sua pazienza, Paolo Monti e i suoi scappellotti quando non sapevo mettere in bolla...
E poi la scuola era viva da mattina a sera; quando c’erano le esercitazioni non esistevano orari: se tu avevi organizzato il tuo set, non ricordo mai che un bidello mi abbia detto guarda sono le sei, le undici, bisogna chiudere, bisogna andare a casa, oppure chiudi tutto, arrivano quelli dei serali. La mia sensazione è che c’era un orario d’ingresso, ma non un orario di uscita. Perché all’Umanitaria la didattica non era solo forma, ma sostanza, fatica e sudore, era voglia di mettersi alla prova e volontà di riscatto, in piena libertà, senza preconcetti, senza costrizioni. Non la dimenticherò mai; tutto il lavoro che ho portato avanti nel mio percorso professionale dagli anni ‘70 fino ad oggi proviene dall’esperienza che ho assimilato all’Umanitaria, è l’imprinting di tutto il mio lavoro attuale. Ne sono sicuro: quella scuola mi ha cambiato la vita”.
08. Rosa Genoni e la storia di una sartina
Intorno a questa frase c’è tutto il mondo di Rosa (che in parte è anche quello di Ermelinda): una grande istituzione, una grande donna, un obiettivo comune: il riscatto professionale e civile delle donne all’inizio del ‘900, a pochi anni di distanza dallo sciopero delle “piscinine”, le piccole sartine sottopagate di cui sia la Genoni, sia l’Umanitaria conoscevano bene lo status (una delle prime inchieste dell’Ufficio del Lavoro dell’ente milanese – “Scioperi, serrate e vertenze tra capitale e lavoro in Milano nel 1903” – riguardava proprio le condizioni di vita e di lavoro di operaie e operai nel capoluogo lombardo). Del resto, non appena aveva messo piede a Milano (a soli dieci anni) lasciando la famiglia d’origine a Tirano, in Valtellina (alla nipote Raffaella Podreider ricordava sempre che “chi si alzava per ultimo rischiava di non trovare neppure le scarpe da mettere, perché in casa non ce ne erano abbastanza per tutti”), anche Rosa aveva fatto la sua bella gavetta nel mondo delle sartorie. Poi la scuola, l’emancipazione, il lavoro, il riscatto sociale. E l’insegnamento.
Nel 1905, non appena viene invitata dalla Società Umanitaria a dirigere il corso di sartoria (allora le scuole avevano sede in via Goldoni), Rosa Genoni accetta entusiasta: l’idea di poter contribuire alla crescita professionale di tante ragazze la riempie d’orgoglio. Anche se nelle foto che conserviamo in archivio non c’è traccia di Rosa, ci sono loro, le sue studentesse, giovani operaie che vogliono perfezionarsi e cambiare la loro vita: diligenti e attentissime, perché in gioco c’è il loro futuro, ogni giorno, dopo il lavoro, arrivano in via San Barnaba, dove trovano una insegnante speciale, che conosce i loro sogni e suscita in loro la voglia di cambiamento, quel “rilevarsi da sé medesime” che vale tutta la loro fatica.
Con la sua grinta e la sua genialità, presto Rosa diventa una delle figure-chiave dell’apparato educativo dell’Umanitaria, insegnando alle sue allieve ad inventarsi il futuro (con stile), mettendo a disposizione le sue capacità, aiutandole a rimuovere gli ostacoli sul loro cammino. I successi arrivano uno dopo l’altro; dopo il riconoscimento del Gran Premio per la Sezione Arte Decorativa all’Esposizione del 1906 (tra i modelli presentati, di elevatissimo pregio, spicca la veste di “Flora”, ispirata alla “Primavera” del Botticelli), su incarico dell’Umanitaria la Genoni parte per Parigi, dove visita le migliori scuole professionali e ne studia i programmi, per dare il via ad un moderno insegnamento nei corsi di sartoria, ricamo, modisteria.
È proprio in uno di questi corsi che Ermelinda Parenti ha trovato la sua strada, superando l’impasse di chi era sempre considerata una “stupida”, mentre le mancavano le conoscenze adatte per emergere nella società. Ce lo raccontava lei stessa: senza i corsi dell’Umanitaria, senza il modello di Rosa Genoni, la sua vita non sarebbe stata la stessa, perché avrebbe sempre ignorato di possedere le capacità per aprirsi al lavoro, e alla vita, con dignità.
09. Le mie prigioni: Riccardo Bauer tra carcere e confino
Oggi non riusciamo ad accettare le limitazioni alla nostra libertà? E allora cerchiamo di tirarci su il morale, andando a vedere come si viveva dall’altra parte, la parte degli oppositori al regime, rileggendo i suoi appunti sparsi (usciti postumi, nel 1987, in “Quello che ho fatto”), quando Bauer ci parla della sua ultima “residenza” carceraria, Regina Coeli, dove è in attesa di conoscere la definitiva condanna del Tribunale Speciale fascista: quella che nel 1931 lo condanna a venti anni di carcere – ovvero 7.300 giorni, e quindi 175.200 ore – da passare in completo isolamento. In compagnia solo delle ferite della Grande guerra, che ad ogni cambio di stagione lo fanno tornare al fronte.
Di quei vent’anni ne sconta “solo” tredici: i primi nove li passa lì a Regina Coeli (tranne una breve parentesi nel carcere di Alessandria), altri quattro, dal dicembre del 1939, li trascorre al confino nell’isola di Ventotene, prima di essere liberato dopo il 25 luglio 1943, e subito buttarsi nella lotta, come membro del Comitato di Liberazione Nazionale a Roma in rappresentanza del Partito d’Azione.
In quei tredici anni non si perde mai d’animo (nemmeno quando gli comunicano la morte del padre, nel 1936); carattere di ferro, schiena dritta, non si allontana mai di un millimetro dalle sue convinzioni, dalle sue scelte, dai suoi principi-guida. In quella “innaturale esistenza” reagisce studiando molto: “ripassai tutto Croce, affrontai l’intera storia della filosofia del De Ruggiero, mi lessi Il Capitale di Marx, e tutta una serie di volumi sulla storia del Risorgimento e di quella parlamentare italiana” (sono oltre 300 i libri, tutt’oggi conservati nella biblioteca dell’Umanitaria).
Lo studio non è però una fuga dalla realtà; un foro impercettibile nella piccola feritoia della sua cella gli consente di avere la sua “fettina di libertà” e restare in contatto con il mondo, scoprendo gioie (la scarcerazione di alcuni compagni di lotta) ma anche orrori: come quando vede portare via l’amico Umberto Ceva per uno dei soliti “interrogatori”, da cui esce così provato che, per non tradire altri prigionieri, decide il suicidio. Quando poi gli nascondono un microfono in cella (ma Bauer se ne accorge subito) ribalta la situazione a suo vantaggio, perché “il microfono ci consentiva uno sfogo quasi isterico della bile antifascista che avevamo in corpo. E credo che Mussolini mai abbia raccolto dalle labbra dei suoi “sudditi” altrettanti insulti, altrettante profezie di malamorte, altrettanti scarnificati giudizi sulla sua politica e sulla sua imbecillità”.
Nell’isola di Ventotene la prigionia cambia; pur controllati a vista, Bauer e compagni (in primis l’amico Ernesto Rossi) possono dividere insieme le ore della giornata, a fianco di altri confinati, “dei quali cercavo di rilevare la maturità politica discutendo delle particolari esperienze vissute”; nonostante le notizie dall’esterno siano poche, piene di retorica e “sempre reboanti”, il fiuto politico dei confinati sa cogliere la verità sostanziale, la loro analisi politica è sorprendente e sa immaginare il reale andamento del conflitto, aumentando “la speranza di riacquistare, con la sconfitta del nazismo, la nostra libertà”.
Ma soprattutto, in quel frangente, quella generazione di uomini non si chiude a riccio dietro le intemperie della vita, ma segue il detto di Vico: “paion traversie eppur son opportunità”. Gli anni di prigionia e di confino divengono un pensatoio comune a cui attingono i protagonisti dell’Italia post dittatura (da Pertini a Spinelli, da Parri a Terracini), perché in quei momenti di forzato stop si delineano e si pianificano le linee-guida del domani, pensando ad una riconversione dell’Italia fascista e monarchica in un’Italia democratica e repubblicana, dove la sanità pubblica, i rapporti tra stati, un nuovo welfare, la pace, la scuola e le forze sociali siano i temi di un unico programma collettivo, senza che orizzonti politici differenti possano oscurarne la visione d’insieme.
Riccardo Bauer fu uno di loro, uno dei grandi rappresentanti di quell’Italia civile che ha saputo opporsi all’altra Italia, quella dell’arroganza, dell’illegalità e della corruzione dei potenti. Un autentico padre della patria, dentro e fuori la Società Umanitaria.
10. L’estasi di Toscanini sul palco del Teatro del Popolo (1922)
Fatto sta che Arturo Toscanini non si tirava mai indietro quando Carlo Gatti, il direttore musicale del Teatro del Popolo, lo invitava a partecipare alla programmazione musicale. In verità, non sono stati molti i concerti diretti dal “titano italiano”: una decina in tutto, dal 1912 al 1925. Ma sono stati memorabili: per lui, e per chi si trovava in sala. Con una precisazione d’obbligo; il termine “del popolo” non era un vezzo, perché per accedere al “capannone” occorreva un biglietto che era rilasciato esclusivamente alla categoria di operai e operaie manuali, tessera del sindacato alla mano. E così, con l’ingresso a modico prezzo, ogni concerto si trasformava in un vero evento per il popolo dei lavoratori, quasi come un concerto del Primo Maggio ante litteram…
Grazie ad uno dei tanti afecionados, nonché critico illustre, Gian Mario Ciampelli, che ha seguito il primo lustro di vita musicale del Teatro del Popolo di Milano (titolo di un suo impeccabile volume, del 1927), e grazie alle recensioni di quei memorabili momenti musicali, oggi possiamo provare ad immedesimarci nella platea di allora, e rivivere quelle stesse emozioni. Undici anni dopo il Mosè di Pellosi, a poche centinaia di metri da quella chiesa, Toscanini si trova a dirigere l’Orchestra della Scala in una ex fabbrica (la Brown Boveri), riadattata a salone per eventi artistici. E su quel palcoscenico disadorno – raccontava l’anonimo estensore sul quotidiano La perseveranza dell’11 novembre 1912 – “deve aver provato una delle più profonde emozioni della sua gloriosa vita d’artista, ammirando il superbo, imponente spettacolo della folla operaia paurosamente fitta nell’immenso salone, e constatando che nessun altro pubblico forse sa ascoltare la musica con uguale intensità di raccoglimento”.
La carriera di Toscanini procedeva spedita, in Italia e all’estero. Al Teatro del Popolo il “principe dei concertatori” torna nel giugno 1919 (prima di iniziare una lunga tournée negli Stati Uniti), nel luglio del 1920 e del 1922, e infine nell’ottobre del 1925, come prologo della stagione dei concerti dell’Ente Concerti Orchestrali. Ma per Ciampelli è il concerto del 22 luglio 1922 quello che – almeno per noi dell’Umanitaria – deve rimanere assolutamente negli annali (insieme a quelli di Stravinskij, Rubinstein, Bartok, Poulenc e tanti altri). “Il programma si chiuse con la più poetica, forse, fra le opere dello Strauss, Morte e Trasfigurazione. Subito finito, avvenne da parte del pubblico una esplosione di gioia indescrivibile. Chi si trovava sul palco vicino al maestro, lo vide, lieto come non è facile vederlo, presentarsi alla folla: e la folla, anziché addensarsi alle porte per uscire, rifluire invece verso il palco acclamando, in delirio. La prima parte del salone era fitta di volti alzati, di bocche spalancate, di fazzoletti agitati: la marea montava verso il palco, a onde possenti, con grida di gioia. E Toscanini davanti a questa folla primitiva, impulsiva, sincera, rideva e agitava le braccia in un gorgo di letizia inconsueto, come se sentisse di trovarsi davanti ad un pubblico più suo, più affine al suo sentimento. Chi scrive conta questo ricordo tra i più belli della sua vita”.
11. Albe Steiner e la Scuola del Libro. I ricordi di un allievo
“Milano, inizio anni ’60. Si lavorava di giorno e si studiava di sera. Direttore della Scuola del Libro, e docente di grafica, era Albe Steiner, un vero maestro; dotato di intuizione, di conoscenze teoriche e di una grande cultura, era unanimemente riconosciuto come uno dei più affermati designer dello scenario milanese, accanto a Max Huber, Antonio Boggeri e Franco Grignani. L’influenza di Steiner fu decisiva per la Scuola del Libro; lui si impegnava a formare dei grafici dotati di idee, di tecnica, di metodo e di capacità di analisi e di sintesi. Steiner ci spiegava che nella creatività c’è sempre un rapporto fra la memoria del passato, la realtà del presente e la prospettiva del futuro, bisogna cioè rispettare sempre le proprie radici pur inserendosi nella più vasta realtà del mondo globale. Fra i lavori che ci mostrava ricordo particolarmente le copertine dei libri per Feltrinelli, il layout del giornale Il Manifesto, il packaging per la Lark, il manifesto per i deportati ebrei e le drammatiche pagine introduttive del libro di Piero Caleffi, Si fa presto a dire fame, con i caratteri a piena pagina. Alternava lavori di grafica aziendale ad altri a scopo sociale e politico e ha trasferito questi suoi insegnamenti ed esperienze alla Scuola Umanitaria.
Io ero come una spugna. Cercavo di assimilare e interpretare ogni sua parola per riversarla nella mia professione. Avevo capito che senza cultura la creatività non trova uno sbocco. Sono stati anni difficili ma eravamo giovani, pieni di energie e sostenuti da un grande entusiasmo e dalla voglia e la speranza di riuscire. Speranza che si respirava nell’atmosfera dell’Umanitaria, dove, più che a impaginare un libro, ho appreso i valori della cultura e dell’etica, della libertà e della dignità dell’uomo”. Cultura e lavoro. Tecnica e cuore.
12. La città del futuro? Riparte dal 1905
L’efficienza, del resto, è sempre stato un tratto distintivo di Milano. Già nel 1905, un anno prima di quell’evento mediatico mondiale che fu l’Esposizione Internazionale, nella nostra città c’era già chi aveva immaginato una città diversa, suddivisa in tante “isole” autonome, quasi micro-città all’interno della città stessa. Allora si partiva da un problema sociale diverso, che riguardava sia la penuria delle abitazioni popolari, sia la pochezza con cui queste cosiddette “abitazioni” erano costruite, affittate ed abitate: case fatiscenti, insane e indecorose, prive di aria e di luce, senz’acqua corrente, senza fognature, con latrine fetide e, per di più, di uso comune.
Il quartiere che vide la luce poche settimane prima dell’Expo (e che fu visitato dai conferenzieri di tutta Europa) fu un simbolo della modernità, una realizzazione all’avanguardia sotto tutti i punti di vista: ognuno dei 249 appartamenti di uno, due o tre locali – che davano alloggio a poco più di mille persone – era munito di latrina privata, di condotto per le immondizie, acquaio, acqua potabile, elettricità. L’elevato standard di costruzione, e la maggior metratura dei locali, era completato da una serie di servizi extra e di confort che hanno reso questo quartiere (e il successivo, realizzato nel 1909 sempre nell’estrema periferia della città) il precursore dell’odierno social housing; la concezione alla base prevedeva infatti che ogni quartiere fosse una piccola cittadella autosufficiente, attenta alle esigenze di tutti, con la Biblioteca popolare e le conferenze dell’Università popolare, con la sala allattamento e l’asilo nido condominiale (ove si sperimentava il metodo educativo di Maria Montessori), con il locale per bagni e docce, la farmacia, il ristorante cooperativo e ampi cortili areati.
Non fu un buco nell’acqua, ma il punto di ripartenza, lo spartiacque per una città davvero a misura d’uomo, tanto è vero che la maggior parte delle residenze operaie presero a modello quelle case. Che furono progettate, finanziate e realizzate (ed esistono tuttora, in via Solari e in viale Lombardia) da una istituzione privata, la Società Umanitaria: benché fosse cosciente che il tema delle case operaie non fosse contemplato nei suoi scopi statutari, e che il suo intervento non avrebbe risolto quantitativamente il problema della casa, quel gruppo dirigente decise di investire oltre un sesto del patrimonio di questo ente per proporre una nuova concezione della casa, un modello abitativo innovativo, che potesse essere adottato e applicato anche altrove, servendo da stimolo a soluzioni di più ampio respiro.
Il diritto ad una casa sana e dignitosa, dove ricreare l’armonia famigliare, era solo il primo passo di un processo di educazione e maturazione collettiva, ispirato alla solidarietà e al rispetto del bene comune. Valori da cui si può ripartire anche oggi, perché sono il dna di ogni comunità.
13. 1946. Un corso di taglio e cucito per guadagnarsi la vita
In questo frangente la lettera che abbiamo trovato nel nostro Archivio è un raggio di sole e di speranza da parte di un gruppo di donne che non si arrende; quel gruppo di donne guarda all’Umanitaria e non vede macerie e distruzione, ma si immagina una nuova scuola, dove avere gli strumenti idonei ad affrontare le sfide della vita. Allora a capo dell’Umanitaria c’è Lodovico d’Aragona (1876-1961), uno di quegli operai che all’inizio del secolo si era diplomato proprio in via Daverio, cominciando una carriera di paladino dei lavoratori, prima come ispettore di fabbrica, poi come sindacalista, poi come segretario della Confederazione Generale del Lavoro e, dopo la Liberazione, come Ministro del Lavoro.
“Le sottoscritte, allieve del Corso di taglio e confezione biancheria, nel dubbio che, durante il periodo estivo, possano essere sospese le lezioni, si permettono far presente il loro vivissimo desiderio che non subisca alcuna sosta il corso stesso, tenuto con tanto zelo e con tanta competenza dalla signora Adele Valsecchi (la docente aveva tenuto il corso di biancheria dal 1905 al 1944, negli anni in cui nelle Scuole professionali femminili insegnava una stilista eccezionale, Rosa Genoni, la vera fautrice del made in Italy nella moda, n.d.r.). Le lezioni sono veramente utili tanto a coloro che lo frequentano a scopo professionale, quanto a quelle che lo frequentano a scopo puramente pratico. Le une possono acquistare quell’indirizzo e quelle cognizioni che le metteranno, in breve tempo, nelle condizioni di potersi guadagnare la vita; alle altre dà l’immediata possibilità di rendersi veramente utili alle loro famiglie, specialmente nell’attuale momento economicamente difficile. A tutte le frequentanti, qualunque sia il loro avvenire, dà il modo di acquistarsi quel corredo di cognizioni e di esperienza che completerà nel modo più pratico ed efficace la loro cultura di donne. Per tutte le ragioni sopra esposte le interessate confidano, con l’appoggio del signor Commissario Straordinario, di poter essere esaudite nel loro desiderio”.
L’accorata lettera non lascia indifferente d’Aragona: pur tra molte difficoltà, tra luglio e settembre viene organizzato un corso estivo di taglio e confezione biancheria, con una media di 50 iscritte, pronte a “guadagnarsi la vita” con impegno, dignità e partecipazione attiva.
14. L’Umanitaria all’Esposizione Universale del Sempione del 1906
Esserci, bisognava esserci; essere visibili e soprattutto contare. E in questo senso decise di procedere il Consiglio Direttivo dell’Umanitaria: entrando a far parte del Comitato organizzatore, promuovendo due importanti convegni internazionali (uno sull’assistenza pubblica e privata, l’altro, primo nel suo genere, sulla disoccupazione), ma soprattutto facendo allestire un proprio padiglione – progettato in stile liberty dall’architetto Luigi Conconi e realizzato dall’architetto Enrico Monti – collocandolo significativamente nel Parco Sempione, sede principale della manifestazione, nelle vicinanze del padiglione della Previdenza, tema presente per la prima volta in un’Esposizione Universale.
La partecipazione all’Expo fu sicuramente il trampolino di lancio per l’Umanitaria, che fino a quel momento aveva avuto vicende altalenanti: istituita nel 1893, bloccata fino al 1897 per questioni legate all’eredità del Loria, operativa tra il 1897 e il 1898, e poi nuovamente “blindata” dal generale Bava Beccaris in seguito ai moti del ’98: insomma, la Società Umanitaria si era potuta mettere al lavoro in favore del “Quarto Stato” solo a partire dal 1902.
Ma tra il 1902 e il 1906, nel giro di un solo lustro, il lavoro messo in campo era già considerevole, ben documentato nella pubblicazione diffusa in occasione dell’Expo e ben visibile in statistiche, grafici, tabelle, oggetti d’arte e fotografie esposti nella sala centrale del padiglione, trasformato in una specie di Wunderkammer (stanza delle meraviglie): il mondo a cui faceva riferimento l’azione dell’Umanitaria era vastissimo, dal campo dell’assistenza ai lavoratori a quello dell’istruzione e della formazione professionale, da quello della cooperazione a quello del sostegno agli emigranti, da quello dell’edilizia popolare a quello della legislazione sociale. A cui si aggiungeva una rete infinita di contatti, sinergie, collaborazioni con amministrazioni civiche, con istituzioni pubbliche e private, con istituti di credito, con il mondo del mutuo soccorso e con quello produttivo e imprenditoriale. In un solo lustro, la Società Umanitaria aveva dimostrato di essere già una delle realtà sociali più dinamiche del tempo. I sei mesi dell’Esposizione servirono a testimoniare i traguardi raggiunti, a presentarsi al mondo, a farsi conoscere oltreconfine, a rilanciare la propria mission: anticipare, sperimentare, risolvere.
Nella prossima puntata, quando Bianciardi raccontava l’Umanitaria.15. Quando Luciano Bianciardi raccontava l’Umanitaria
L’intervista si chiude parlando di Riccardo Bauer, “e ascoltandolo non fai a meno di pensare che il suo nome significa costruttore”, scrive Bianciardi presentandolo. Non sappiamo come sia andata l’intervista (non ci sono cronache di quell’incontro, purtroppo), ma chissà che nei discorsi tra lo scrittore e l’educatore civile (collaboratore di riviste e quotidiani) non sia scoccata la scintilla. Magari quando Bauer scopre che Bianciardi con Carlo Cassola nell’immediato secondo dopoguerra organizzava un bibliobus per portare la lettura nelle zone di campagna più remote della sua Grosseto (un esperimento molto simile a quello del Barcone, il cinematografo natante per le valli del Po ideato dall’Umanitaria prima dell’accento del fascismo). Oppure quando Bianciardi, autore sempre con Cassola di un’indagine sulle miniere della Maremma (edita nel 1956), scopre che Bauer è molto sensibile al tema dei “viandanti della disperazione” di cui segue e cerca di cambiare le sorti attraverso una rivista di forte impatto sociale, il Bollettino quindicinale dell’emigrazione (su questa rivista appariranno inchieste molto scottanti sulle condizioni di lavoro sia in Francia sia in Svizzera).
Il reportage, intitolato semplicemente “La Società Umanitaria di Milano”, è lungo otto pagine, corredato da un fotoservizio di Adalberto Guarnerio. Otto pagine piene di storie e di valori; le prime tre dedicate al passato, dove Bianciardi insiste che “il carattere rivoluzionario dell’Umanitaria, la sua modernità, il suo primato italiano e in certi settori europeo, furono chiari fin dagli inizi”; le altre cinque al suo presente, in cui Bianciardi dipana le vicende di una istituzione che visita per un giorno intero (“ma ci vorrebbe una settimana per vedere tutto”, chiosa a un certo punto), perdendosi tra i chiostri, visitando l’archivio e la fototeca, parlando con insegnanti e allievi. Ma soprattutto respirando a pieni polmoni l’atmosfera di un ente che ha saputo legare in modo ammirevole il vecchio (l’impianto conventuale) al nuovo (le strutture scolastiche e di aggiornamento professionale), dove il vetro e il cemento si modulano con tanti alberi annosi: “loro reggono alle bombe, benedetti alberi, alla crudeltà degli uomini, allo scorrere dei decenni”, scrive ancora.
La parte conclusiva del reportage è uno spaccato del secondo periodo d’oro dell’Umanitaria, quello del rilancio dopo la ricostruzione, con Bauer alla testa dell’Ente, che Bianciardi restituisce con una narrazione attenta, ricca di suggestioni e di pathos:
“Scuole abbiamo visto soprattutto: aule, laboratori, maestri e ragazzi. Una popolazione di circa tremila giovani che per almeno sei-sette ore al giorno dà vita a questa cittadella milanese. L’Umanitaria infatti sostiene e regola una grande scuola di orientamento professionale, con le sue varie diramazioni. Qui infatti si dà particolare importanza ai criteri di assistenza psico-pedagogica, e si insiste soprattutto sull’importanza didattica del lavoro di gruppo. L’idea è che si impari meglio collaborando e discutendo tutti quanti insieme, alunni e maestri. Dopo i tre anni di orientamento, gli alunni possono accedere, secondo una scrupolosa valutazione delle loro attitudini, a due scuole di perfezionamento, biennale l’una, triennale l’altra. La prima si chiama Istituto d’arte (ceramisti, ebanisti, fotografi, grafici, orafi), la seconda Istituto professionale (ceramisti industriali, compositori a mano, elettromeccanici, fabbri). “Questa è una scuola pilota”, ci dicono. Un altro avrebbe detto “scuola modello”, ma è più giusto nell’altro modo, dà il senso del movimento in avanti, del progresso”.
Un work in progress tuttora in corso.
16. I bambini del Metodo Montessori: memorie di educatrici
“(Qui) i bambini non sono mai timidi; una delle più simpatiche loro qualità è la scioltezza con cui trattano le persone, con cui lavorano in presenza di altri, la franchezza con cui mostrano i loro lavori; essi sono notevolmente diversi dagli altri fin qui conosciuti, hanno l’aspetto sereno di chi è felice e la disinvoltura di chi si sente il padrone delle proprie azioni… (…) mostrano di interessarsi ai dolori altrui e di prendere parte e comprendere assai più di quello che si potrebbe credere, data la loro età”.
E cosa dire, quando il bambino scopre la scrittura? Lo avrebbe ricordato molto bene Anna Fedeli, durante l’intervento al Convegno Internazionale per l’esame delle questioni che riguardano il Corso popolare in relazione alla Scuola primaria e all’insegnamento professionale del 1916: “L’inizio della scrittura è sempre una sorpresa e una gioia per adulti e piccini. È un fatto improvviso che viene come per merito di nessuno. Uno dei miei bambini nel mio primo esperimento Montessori qui in Milano era nel momento della commozione perché aveva scritto la prima parola; e saltava di gioia espandendosi con altri bambini. Una donna inopportunamente gli chiese: Non dici niente alla signorina che t’ha insegnato a scrivere? Ed egli, prontamente: Sum stà mi”.
Nemmeno le esperienze vissute durante la Grande guerra riescono a intaccare un’azione benefica che permea tutte le fasi della crescita: “Noi non potremo dimenticare un’altra bambinona, che sembrava fatta di violenza e di ribellione come se non ci fosse più legge che avesse valore per lei, che adesso è buona, mite, affettuosissima, in ansia per un bambino malato come se si trattasse della sua mamma o del piccolo fratello”.
Ma, forse, è ancora più indicativo il ricordo di Anna Maccheroni, in cui l’assistente e amica della Montessori, ma soprattutto la prima Direttrice della Casa dei Bambini di via Solari sottolinea la forza di un Metodo che permea tutto, dall’ambiente agli strumenti didattici, dalle regole della Casa al comportamento dei bambini che la abitano: “Un giorno venne l’ispettrice. Aveva fatto sapere che sarebbe venuta. Ci trovò in giardino e guardò volentieri le aiuole coltivate dai bambini, il gallinaio con la gallinetta bianca, e i pulcini, la vasca con i pesci. Volle poi vedere i bambini al lavoro. Allora io dissi piano: “Bambini”. Mi vennero d’intorno: “Andate dentro e mettetevi a fare qualcosa”. Andarono. Dopo qualche minuto andammo anche noi e li trovammo occupati ognuno a far qualcosa. L’ispettrice ebbe le lacrime agli occhi. Era il 1909”.
Si chiamavano Egle, Antonietta, Mario, Toni, Giulia e attraverso i loro gesti, le loro sensazioni, i loro comportamenti, si è fatta la storia dell’educazione all’infanzia.
17. Caro amico ti scrivo. Una lettera di Paolo Grassi a Riccardo Bauer
L’inedito che presentiamo è una lettera importante, che riannoda i fili di un rapporto altalenante, basato su una grande stima, ma anche sulla fermezza nelle proprie posizioni. Tra i due c’era stata una frequentazione molto intensa negli anni ’50, quando si avviò una collaborazione artistica (dal 1950 al 1956) tra il Piccolo Teatro e il Teatro del Popolo dell’Umanitaria, senza però riuscire a fare il grande balzo in avanti, quello di un centro d’arte drammatica da farsi in via Daverio, progetto su cui Grassi spingeva l’acceleratore (“io la scuola la voglio fare. Vedi di partire in velocità”, scriveva nel 1951), mentre Bauer era più propenso ad una scuola professionale per i tecnici del mondo teatrale. Poi, stando al materiale d’archivio, poche altre occasioni, tranne le intense giornate di studio a Villa Meina, sul lago Maggiore, a parlare di teatro.
La lettera dimostra al contrario un legame profondo, fatto di etica e di fraternità di sentimenti. Ecco cosa scriveva Grassi, su carta intestata del Sovrintendente Teatro alla Scala, il 12 febbraio 1976: “Caro Bauer, apprendo che il 6 gennaio u. s. hai compiuto 80 anni. Sono certamente 80 anni limpidamente esemplari, sia sotto il profilo del patrimonio morale e civile che ti appartiene, sia sotto il profilo del comportamento che è stato, ed è, di modello a vecchie e nuove generazioni, sia per quanto riguarda tutte le cose estremamente concrete che sono legate alla tua persona. A differenza di molti giovani d’oggi, che pensano di poter chiudere i libri di storia, io sono abituato a guardare quelli che considero i punti di riferimento e tu sei stato fra questi nella mia vita, insegnandomi un codice civile e morale ineccepibile, un comportamento intransigente, un’etica coerente e rigorosa, un culto non demagogico ma autentico e profondo della vera libertà nostra e di tutti.
Partecipo con cuore amico, con fraternità di sentimenti, con tanta, tanta, tanta stima a questi tuoi vittoriosi 80 anni, augurandoti di andare avanti con la serenità, la forza morale che ti è propria e tutta la salute di cui hai bisogno. Ti ringrazio, oggi più di ieri, per ciò che hai insegnato a me e per la solidarietà che, spontaneamente, mi hai dimostrato in tante difficoltà della mia vita. Con sentimenti profondamente affettuosi Paolo Grassi”.
L’illustrazione è di Nani Tedeschi e raffigura un anziano Riccardo Bauer.
18. Quando in via Daverio c’era aria di rotative
La macchina da presa indugia molto su quei momenti, con le dita dei compositori che spostano i caratteri a stampa per formare una riga dietro l’altra, ad una velocità incredibile, e poi si vedono le copie del giornale rotolare su rulli trasportatori per essere messe in distruzione. Sembrano scene della preistoria della carta stampata, e invece per tutti i quotidiani (“è la stampa, bellezza” diceva Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia, del 1952) era ancora la norma negli anni ’90, appena prima del millennium bug.
Riguardando quelle scene ci sono tornati in mente alcuni episodi che, incredibilmente, riguardano da molto vicino la storia dell’Umanitaria. Il primo ricordo è quello che ci ha lasciato un giornalista d’eccezione, Alberto Cavallari (sua la prima intervista al mondo ad un Pontefice, nel 1965), storico direttore del Corriere della Sera negli anni bui della P2. Cavallari ricordava che, nel primissimo secondo dopoguerra, collaborava a L’Italia Libera, e “quando i tipografi presentavano il bozzone di una pagina al direttore, se la pagina era bella lanciavano sempre un grido: W la Scuola del Libro. Era la gioia operaia per la perfezione raggiunta, il culto del rigore appreso all’Umanitaria e alla sua scuola di perfezionamento”.
Con il secondo ricordo andiamo alla fine degli anni ’50, quando l’Umanitaria era risorta dalle ceneri e aveva avviato la Scuola Preparatoria, sperimentazione che sarebbe stata modello didattico per la Scuola Media Unica (adottata dallo Stato italiano a partire dal 1963). In quegli anni, insieme ai corsi di qualificazione serali per adulti – quelli per imparare l’uso della Linotype, la composizione a macchina –, durante il giorno i ragazzi delle medie per capire le proprie attitudini, per sondare le proprie inclinazioni professionali potevano frequentare perfino il corso di tipografia. Oltre a mettere in macchina opuscoli, libretti, piccole riviste scolastiche, quei ragazzini, ancora sotto i 14 anni, si erano innamorati di quel mestiere (fatto di sudore e inchiostro) ed erano riusciti a diventare validissimi compositori. “Faceva impressione vederli nell’aula delle esercitazioni – ci diceva qualche anno fa Romano Barboro, uno dei loro docenti – per essere ancora dei bambinoni in pochi mesi avevano raggiunto una grande abilità; erano arrivati ad affinare una tale tecnica che riuscivano a comporre una pagina senza avere il testo di riferimento: pensavano componendo, trasmettevano direttamente il loro pensiero attraverso i caratteri. Da non crederci…”.
Ebbene sì, anche se in Umanitaria non c’erano proprio le rotative, la sala macchine era come quella dei grandi giornali: con operai in erba, preparatissimi, perfettamente in grado di fare emozionare con il loro lavoro.
Nella prossima puntata, quel francese taciturno alla Casa di lavoro (1908).19. La leggenda del francese alla Casa di Lavoro (1908)
Ma cento anni fa, questo giardino era solo un pezzo di terra incolta, una distesa di erbacce. Almeno fino a quel giorno (era la primavera del 1908), quando alla porta della Casa di Lavoro bussò un disertore francese. La Casa di Lavoro era una struttura di assistenza dove ci si occupava dei disoccupati in cerca di lavoro, fossero ladruncoli, prostitute, dannati o poveri cristi, ai quali si insegnavano i rudimenti di alcuni mestieri e, nel frattempo, si cercava il posto giusto dove collocarli. A dirigere la Casa di Lavoro una eccezionale donna-manager della solidarietà, la russa Alessandrina Ravizza (nome in codice Sacha), capace di indagare l’animo delle persone solo guardandole negli occhi, cogliendo al volo se fossero meritevoli di appoggio oppure no.
Rinchiuso in un mutismo mai interrotto, il disertore lavorava solitario, strappando erbe e muovendo la terra giorno per giorno, lasciando dietro il suo passaggio la prova indiscutibile di un forte lavoro compiuto. Dalla mattina al momento in cui bisognava andare al refettorio e dopo il riposo accordato, il francese vangava senza sosta. L’orto fu un vero tour de force: ma alla fine si vide una vasta distesa di bella terra, vennero piantati i semi ed alla Casa di Lavoro i disoccupati poterono finalmente godere della vigorosa operosità di quel loro compagno, perché la terra restituì con abbondanza un’infinita di patate, verze, fagioli, carote e pomodoro. Non solo. Quando se ne andò, il vigore e la volontà di quel francese taciturno s’imposero nella memoria di tutti, quasi come un monito, o un merito: “Questo lavora quanto il francese”.
Ancora una volta gli occhi di Alessandrina, abituati alla miseria e alla disperazione, avevano saputo discernere tra un passato tormentato e un presente di redenzione: e la Casa di Lavoro era diventata una seconda chanche da cui ripartire per una vita normale ed operosa.
Nella prossima puntata, storie di vita nel quartiere Solari (1906-1920).20. Storie di un quartiere solidale
Realizzato tra il 1905 e il 1906, ed abitato un mese prima dell’Esposizione del Sempione, il quartiere si trova a metà di via Solari, tra la circonvallazione e il parco Don Giussani (ex parco Solari), nelle vicinanze di quello che oggi è il Design District, ma che un tempo era un’area di estrema periferia: dopo il quartiere, il nulla, l’aperta campagna. Ci vollero pochi giorni per abitarlo tutto, quando un migliaio di persone, semplici operai con o senza famiglia a carico, colsero al volo l’opportunità di entrare a far parte di una comunità solidale, sentendo subito quello spirito di corpo che con gli anni divenne cooperazione e sostegno reciproco: una forma di solidarietà estesa e di vicinanza, di cui è ricco un opuscolo ormai introvabile (datato 1956).
Una volta era tutto aperto, anche la porta interna che dava sul pianerottolo; i ragazzini, giorno e notte, passavano da un appartamento all’altro senza problemi, sia utilizzando i terrazzini comunicanti, sia le porte di casa, sempre ben visti e ben accetti da tutti, perché i bambini erano figli di tutto il quartiere. Anche se ci sono stati periodi difficili e discussioni accese, la forza degli abitanti è sempre stato il sostenersi a vicenda, ognuno impegnandosi a fare la sua parte, discutendo, partecipando, attivandosi per il bene della collettività. Come era solito fare il farmacista Roberto Zavattaro (moglie e cinque figli), che non conosceva orari, sempre pronto a prodigarsi per le famiglie del quartiere, sia anticipando i farmaci, sia trasformando la sua farmacia in un ritrovo serale dove discutere i problemi del quartiere e le questioni sociali. Il quartiere era davvero di tutti, e tutti gli spazi comuni (biblioteca, locale bagni e docce, teatro sociale) erano da salvaguardare; persino il Ristorante cooperativo faceva parte della “famiglia”, al punto che un giorno Agostino Magnaghi, pur avendo quattro piccoli rampolli da sfamare, decise di versare tutto il premio dell'assicurazione per riscattare i debiti della Cooperativa Ristorante.
Uomini e donne ne erano perfettamente consapevoli: vivere in quel quartiere era quasi un privilegio, un privilegio da difendere osservando e facendo osservare il regolamento interno: oltre al pagamento dell'affitto, sentito da tutti come un dovere morale, bisognava mantenere l'igiene e la pulizia della propria casa, ma soprattutto partecipare alle tante iniziative di elevazione e di sensibilizzazione messe in campo dall'Umanitaria: conferenze, spettacoli, corsi professionali dovevano diventare consuetudini da vivere appieno, allontanando i lavoratori dalla piaga dell’analfabetismo (che ne impediva l'emancipazione) e dell’alcolismo (che corrompeva l'animo e frantumava il nucleo famigliare).
“Ad essi il nostro augurio: augurio di vita feconda; di miglioramento intellettuale, morale ed economico per essi e per gli altri. Ma un altro ufficio hanno i nostri inquilini: quello di dimostrare che la vita individuale è la vita associata, solo che sia confortata, difesa, sospinta da ambienti e da instituti che la salute presidiano, la mente nutrono e l’animo sollevano".
Responsabilità, rispetto, mutuo soccorso. Se la leggenda del quartiere è viva ancora oggi, lo si deve anche a quell’imprinting, la scuola del dovere.
Nella prossima puntata, un’oasi di pace a Cocquio Sant’Andrea.21. Cento anni fa, la nostra summer school a Cocquio Sant’Andrea
Nella prossima puntata, quell’estate a teatro, nei chiostri, rileggendo Marquez.22. Quell’estate a teatro, nei chiostri, rileggendo Marquez
Il nostro spettacolo si chiamava MACONDO, come il regno del possibile, il luogo magico che la penna di Marquez aveva creato perché vi accadessero cose che nella vita normale non potevano certo trovare posto. Erano gli anni in cui l’Umanitaria aveva ospitato il convegno “Le matite spezzate” (titolo preso in prestito dal film “La notte delle matite spezzate” sulla repressione violenta del regime del generale Videla in Argentina), si invitavano importanti personaggi di livello internazionale come Isabel Allende, Rigoberta Menchù, Adolfo Perez Esquivel (Nobel per la Pace 1980) e ci si era caratterizzati anche come centro di formazione specialistica per attori, grazie ai seminari tenuti da Leo De Benardinis, Gabriele Vacis, Laura Curino, Marco Baliani, Pierce Ibbotson, Mamadou Dioume, Adriana Innocenti, etc. MACONDO, quindi, nasceva e poteva germogliare su un terreno assai fertile. Quando si sparse la voce, ci fu anche un piccolo malinteso, perchè non pochi nostalgici chiedevano se stava riaprendo il Macondo, uno storico locale milanese di fine anni ‘70 particolarmente noto per la sua connotazione libertaria, alternativa persino ai centri sociali storici, nel quale aveva fatto capolino anche un certo Allen Ginsberg. Poi, piano piano, iniziarono ad arrivare curricula e richieste di partecipazione di giovani attori, drammaturghi e sceneggiatori, scenografi, registi, disegnatori, teatranti di aria estrazione, italiani da nord e sud e poi da tutto il mondo, dal Portogallo alla Francia, dalla Spagna al Nicaragua e al Venezuela, dalla Romania all’Albania, dal Senegal alla Costa d’Avorio agli Stati Uniti.
In poco più di un mese, il gruppo era formato; seguirono mesi di laboratorio, quasi ogni giorno, lavorando fianco a fianco, creando un interscambio di concezioni, esperienze e interpretazioni sui temi della vita che riguardano tutti, ad ogni latitudine, e che ruotano attorno a quattro momenti chiave dell’esistenza: nascita, matrimonio/unione, viaggio/migrazione, morte. Questo era il senso di MACONDO e di quella strana compagnia Brancaleone, che delle differenze, delle diseguaglianze, del multilinguismo traeva la propria forza, rendendolo il proprio segno distintivo.
Chi si trovò in Umanitaria in quell’estate del 1995, non l’ha dimenticato. L’atmosfera surreale dei chiostri al buio, trasformati in un palcoscenico naturale modulare (ogni chiostro una scena) durante un saggio teatrale che a molti sembrava un vero spettacolo, dove le suggestioni, le storie, le luci e le ombre della vita dei personaggi sembravano intrecciarsi con le catene, con le pietre, con le colonne e le architetture di una ambientazione quasi senza tempo: l’obiettivo era stato raggiunto.
Il valore di quell’iniziativa (che l’anno successivo ebbe anche un momento più ufficiale, con l’inserimento nella compagnia di alcuni di coach esterni come Mamadou Dioume e Antonio Testa e di attori più esperti, quali Coco Leonardi e Madeleine Mbita Nna) stava nella sua stessa idea fondante, nello spirito originario contenuto nelle sue stesse premesse. In quelle pagine, in quei volti, in quella narrazione itinerante abbiamo incontrato e conosciuto un po’ di più il mondo, le tradizioni e le consuetudini di tanti paesi rappresentati, ritrovando – per dirla alla Gianni Minà – lo spirito del grande “Gabo”. Un inno alla fratellanza e all’universalità di popoli e genti.
Le fotografie sono di Carlo Casella.
Nella prossima puntata, Bruno Munari e il suoi Lab-Lib23. Il mago dei bambini e i suoi Lab-Lib
In questa puntata parliamo di un bambino speciale, che era però un uomo, un uomo che ha dedicato gran parte della sua vita ai bambini, non come pedagogista o educatore, ma come artista e indagatore appassionato della creatività dei più piccoli, e come loro ha mantenuto fino alla fine una joie de vivre incontenibile, una spontaneità e una curiosità genuine, che lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo (dagli Stati Uniti al Giappone) come il “mago dei bambini”.
Parliamo di Bruno Munari, il grande artista e designer, a cui la Società Umanitaria dedicò nel 1994 l’ultima collettiva milanese quando era ancora in vita (il catalogo, ormai introvabile, venne stampato da Marzia e Maurizio Corraini); in quella occasione Munari, insieme alla sua assistente Beba Restelli, decise di organizzare una serie di laboratori per bambini (la mattina per le scuole, nel weekend per le famiglie), immaginando uno di quei suoi incredibili percorsi di crescita sensoriale, dove si poteva scoprire e manipolare materiali tra loro diversi, per colore, per forma, per struttura, per costruire “qualcosa che non si sa che cosa è”. Un compito che a noi adulti sembra un salto nel vuoto, ma per qualunque bambino è una passeggiata…
Quell’esperienza invernale evidentemente non gli era bastata, perché l’estate successiva Munari volle bissare, inventandosi un’altra serie di laboratori plurisensoriali per l’infanzia: i famosi LAB-LIB, i Laboratori Liberatori, dove i bambini dei centri estivi potevano entrare in contatto con un mondo fatto di carta e cartoncini, di colori, forbici e adesivi, perfino con la fotocopiatrice, mentre le loro educatrici potevano fare esperienza sul campo, seguendo quei procedimenti educativi unici, nel senso che nessuna attività era identica all’altra, perché ogni volta interveniva un imprevisto, un cambio di tono, un colore impazzito.
Chissà se qualche bambino o qualche bambina di allora, oggi, si ricorda di quel piccolo grande uomo che si aggirava curioso tra i nostri chiostri, sedendosi tra i partecipanti, soffiando tra le carte, dando piccoli consigli sul colore da usare, ma soprattutto osservando il lavoro di quei piccoli inventori, lasciati nella totale libertà della loro espressione artistica. Proprio come era solito fare lui quando si metteva a progettare, lui che concepiva la vita come lavoro e il lavoro come gioco, ed il gioco come la vera base di ogni attività creativa, anche la più seria, ma senza mai dimenticare l’ironia, quella del genio che amava creare “Libri illeggibili” o “Macchine inutili”.
Pensavamo che fosse eterno, ma tre anni dopo (1998) Munari ci lasciava per sempre. A noi piace ricordare come lo descrisse un altro osservatore, il grande critico Gillo Dorfles, in un numero della nostra rivista: “nel panorama artistico di questo secolo Munari è uno dei pochi esempi d’un equilibrio interiore tra sentimento e pensiero, tra istinto e ragione, che si traduce in un’opera equilibrata, ma sempre aperta al nuovo e all’imprevisto”.
24. Living with the enemy
Oggi la violenza alle donne non è più marginale, è un fenomeno studiato, controllato, monitorato; c’è il numero verde 1522 (attivo 24 h su 24), se ne parla a scuola, se ne discute in famiglia, sui social, sul blog della 27ventisettesima ora, in una battaglia (perché la violenza è una guerra) comune e costante per abbattere quelle “cattive abitudini” che fino a pochi anni fa permettevano prevaricazioni inaccettabili ed oggi, con l’escalation dei casi, hanno portato a coniare un nuovo sostantivo: femminicidio.
Prima che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituisse la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (17 dicembre 1999) in certi Stati, in certi paesi, in certi appartamenti, non era facile essere donna, perché questa forma subdola di violenza era quasi assente dai quotidiani, come se non esistesse, come se il reato non fosse contemplato. Poi una fotografa eccezionale cominciò ad occuparsi della questione; per lunghi mesi Donna Ferrato (“omen nomen”) seguì gli interventi della polizia chiamata dalle vittime o dai vicini, guardò negli occhi i carnefici, seguì le donne picchiate nelle case-rifugio vivendo accanto a loro, parlando con loro, sentendo le loro storie e diventandone amica.
Da quel lavoro, grazie alla costanza di quella Donna, la violenza alle donne divenne un fatto di cronaca quotidiana, riportato sui tabloid di tutta l’America. Ne nacque un libro “Living with the enemy”, un progetto per l’accoglienza e l’assistenza alle donne maltrattate (oggi National Resource Center on Domestic Violence) e poi una mostra itinerante, struggente e delicata al tempo stesso. Quella mostra ebbe un’unica tappa in Italia, a Milano, dove 50 fotografie di Donna Ferrato – dal 30 marzo al 27 aprile 1995 – trasformarono il Chiostro dei Glicini in una esposizione incredibile (merito dell’allestimento suggestivo ideato dall’Architetto Giampiero Bosoni): una mostra voluta da un’altra donna straordinaria, Grazia Neri, che scelse l’Umanitaria come spazio ideale per puntare i riflettori su un fenomeno che continuava ad essere taciuto, nascosto, sommerso.
La foto per l’invito venne scelta per il contrasto temporale: il volto di una donna sorridente, e la stessa donna con occhi tumefatti, le labbra spaccate e lo sguardo sofferente, dopo la relazione che le ha distrutto la vita. Ma in mostra c’erano anche foto di tenerezza estrema, come la donna addormentata a fianco del figlio, con il viso finalmente disteso, nella prima notte di vera quiete, perché non si trovava più nella casa del mostro. Quel reportage seppe mostrare a tutti la cruda verità: c’era la denuncia di crimini ignobili, ma c’era anche la speranza di un cambiamento, nonostante i problemi da affrontare – oggi come allora – fossero ancora enormi, perché non sempre è facile rompere il muro del silenzio, ribellandosi ai soprusi, a quell’amore distorto dalle botte, dalle ossa rotte, dai lividi che non si cancellano.
Il senso di quella mostra è tornato vivido anche lo scorso inverno, durante la kermesse che ha unito tutte le sedi dell’Umanitaria in un infinito “Lenzuolo SOSpeso”, dove ciascuno ha potuto cucire con un filo rosso il nome di una donna vittima di violenza. Con la speranza che quel lenzuolo possa essere piegato per sempre e riposto nella cassapanca della memoria per tener viva l’attenzione, mettendo la parola fine a un crimine contro l’umanità. Mai più.
Il sito di Donna Ferrato è: http://www.donnaferrato.com.
Nella prossima puntata, storia di un delinquentello salvato dal degrado.25. Dal degrado alla vita. Una bella storia di riscatto
La storia della Società Umanitaria è ricca di progetti incredibili, iniziative innovative, idee vincenti. Ma anche di tentativi falliti, in tutto o in parte, per cause di forza maggiore: spese eccessive, mancanza di partner, circostanze avverse. Per quanto in alcuni casi il successo non arrise come immaginato, è anche vero che, come avvenne per la Casa di lavoro dei piccoli, la pur breve durata (poco più di un anno solare) lasciò il segno in molte vite, e molte altre vite le cambiò di riflesso negli anni successivi.
In questo caso il punto di partenza era una evidente situazione destabilizzante, quella di una marmaglia insofferente a leggi e disposizioni, un dilagare incessante di ragazzi sbandati che vivevano di elemosina e di espedienti (non a caso nella nostra pratica d’archivio venne aggiunta, a matita blu, la parola “randagi”). Con la maggior parte degli uomini al fronte, la ragazzaglia in città era diventata una vera piaga sociale, con centinaia di ragazzacci senza una casa né una morale, unica legge i ferri del mestiere: scalpelli, grimaldelli e coltelli, con cui si approfittavano dei passanti e delle signore della Milano bene.
Così, il 10 gennaio 1916 l’Umanitaria inaugurava la Casa di lavoro dei piccoli, che tanto piccoli non erano dato che si rivolgeva a ragazzini al di sopra dei 12 anni, suddivisa in tanti laboratori (legno, metalli, arti applicate) dove poter testare le proprie attitudini, verificare la propria propensione al lavoro e, lontani dalla strada, imparare a conoscere altri ferri del mestiere… L’esito fu davvero confortante: in sei mesi di preparazione, furono 150 i ragazzi traviati frequentanti, dei quali il 70% fu allontanato dalla strada, la maggior parte imparando un onesto mestiere, altri passando alla Scuola professionale, altri trovando subito un’occupazione.
Poi la chiusura, ma non il flop, perché il valore di quell’esperimento-pilota è testimoniato da una storia di vita salvata, narrata dal quotidiano Avanti! dell’1 giugno 1923, con la foto di un ragazzo con la sigaretta in bocca: “La fotografia è quella di un giovanetto, certo M. G., che è stato accolto dall’Umanitaria all’età di 12 anni, quattro dei quali già trascorsi in piena attività di servizio come borsaiuolo. Le sue condizioni fisiche e morali erano semplicemente ripugnanti! Ha frequentato assiduamente la Casa di lavoro dei piccoli, distinguendosi nella condotta, nello studio e nel lavoro. Affidato alle cure di una buona famiglia operaia, dette subito prova di intelligenza e di cuor generoso”.
Il cambio di passo era stato fulmineo, ma definitivo. Tanto è vero che pochi mesi dopo aver cambiato vita, M.G., si ripresentò alla sua buona maestra, la signorina Ines Crippa, insieme ad una fanciulletta di 11 anni, presentandola con queste semplici e terribili parole: “Questa è la Paolina, l’è insieme alla teppa, la fa la vita alla Stazione Centrale, dietro le baracche della Bonomelli. Le ho detto che qui avrebbe lavato i piatti e che le avrebbero dato da mangiare senza pestarla”. Detto fatto: Paolina fu tolta dalla strada della prostituzione ed avviata ad una vita normale.
Ancora una volta l’opera di assistenza dell’Umanitaria era andata a buon fine: dal degrado alla vita.
Nella prossima puntata, una grande attrice diventa la voce dei desaparecidos.26. Teatro verità. Ottavia Piccolo per i desaperecidos
Gremito è sempre molto gremito, oggi come ieri, quando – una ventina d’anni fa – l’Auditorium fu adibito e adattato, con il suo palco e le luci soffuse, anche a spazio scenico, ideale per piecè teatrali. Tra i tanti interpreti che si misurarono su quel palco (da Franca Rame a Laura Curino), ci piace ricordare una attrice a cui siamo molto legati (e non solo perché è una nostra socia benemerita): Ottavia Piccolo. “Calarsi in quel ruolo non fu facile. Soprattutto dopo che mi recai a Buenos Aires, nel 1999, e incontrai alcune di quelle mogli, nonne, sorelle, quelle donne che per chi conosce la storia dell’Argentina sono le Madri di Plaza de Mayos. Donne che non si sono mai arrese, che dal dolore della perdita hanno saputo tirare fuori una forza straordinaria, implacabile come la fame di verità. Conoscevo il loro coraggio, la loro costanza, la loro determinazione, ma quando mi trovai accanto a loro, tra di loro, compresi nel profondo che quelle donne erano davvero inarrestabili, come delle locomotive lanciate a tutta velocità verso la loro meta. Dopo averle abbracciate, dopo aver guardato nei loro occhi, le parole che dicevo in scena hanno come assunto un significato diverso, le vivevo e le sentivo in maniera più intima, ancora più sofferta”.
Tratto da un romanzo/verità di Massimo Carlotto, “Le irregolari”, messo in scena con la regia di Silvano Piccardi, lo spettacolo (settembre 2000) si chiamava “Buenos Aires non finisce mai”, un monologo dedicato all’immensa tragedia di generazioni cancellate dalla terra, oltre 30.000 donne, uomini e bambini finiti nel nulla, la maggior parte ingoiati dall’oceano, nel silenzio colpevole della comunità internazionale (come raccontava nello stesso anno “Garage Olimpo”, il film/denuncia diretto da Marco Bechis).
Sul palco spoglio, una sedia, un tavolo e lei. Con una intensità toccante e struggente, Ottavia si immedesimava nella vita/non vita di una donna argentina, il cui marito era stato arrestato nel 1978, l’anno dei campionati di calcio, perché dissidente o presunto tale. Ci raccontava il suo calvario: prima il dolore incessante, poi la ricerca affannata, infine la presa di coscienza e il terrore, il terrore che il marito fosse diventato uno delle migliaia di desaparecidos scomparsi durante la dittatura militare. Quella ferita sempre aperta, la ferita di un vuoto che non si riesce a colmare, anima una protesta che non conosce fine, la protesta di decine e decine di donne che come l’indomita protagonista non si arrendono, e ogni giovedì si trovano a sfilare, settimana dopo settimana, mese dopo mese, davanti alla residenza del dittatore Jorge Rafael Videla, con le foto di padri, figli, nipoti scomparsi, di cui non si è più saputo nulla.
Se oggi, quando pensiamo al 1978 non lo ricordiamo soltanto come l’anno dei mondiali, forse lo si deve anche a quel libro di Carlotto, e a quello spettacolo tragico ed epico, che ebbe la sua prima assoluta sul piccolo palco di una grande istituzione.
Nella prossima puntata, quella volta che il Nobel Dario Fo…27. Quella volta che il Nobel Dario Fo...
“Ho capito come è andata. Voi mi avete invitato con tutta la discrezione del caso, ma poi l’hanno saputo anche a Stoccolma e allora per non sfigurare ecco il Premio”. Camicia verde (uno sberleffo alla vecchia giunta Formentini?), microfono in mano, Dario Fo passeggiava sul palco e se la spassava, guardando la folla umana che non vedeva l’ora per sommergerlo di applausi. “Sono commosso per la caciara che è stata fatta dal Comune di Milano sul mio Nobel. Ancora un po’ e scoppiava una rissa. Questa è una città con uno straordinario senso dell’umorismo: è bello vedere degli ottusi che dicono no, no ai festeggiamenti. Il guaio è se avessero detto sì: allora mi avrebbero messo davvero in difficoltà”. E giù applausi. “Avrei preferito presentarmi nell’altra sala, nel Salone degli Affreschi, con quella magnifica Crocifissione che ci ricorda i mali del mondo”, chiosava a un certo punto, però nella sala Auditorium l’affetto del suo pubblico era palpabile, immediato; centinaia di uomini, donne e ragazzi si erano catapultati in Umanitaria (le cronache parlano addirittura di 500 persone) a fargli domande: di teatro, della palazzina Liberty, di quello che doveva dire a Stoccolma. E lui, sornione, “penso che parlerò in gramelot”, e giù trenta secondi d’inglese da gran giullare a corte, comprensibili solo nel thank you finale.
Un fiume in piena, inarrestabile; di colpo si mise a recitare in milanese duecentesco le quartine di Bonvesin de La Riva, e poi, da osservatore attento di una città che, allora, perdeva pezzi a tutto spiano, si mise a parlare di cultura, di arte, di teatro, dei giovani: “Siamo scesi a livelli di bottega... Bisogna dare spazi gratis ai giovani, dove possano cantare, suonare, recitare, esibirsi liberamente. Bisogna organizzare piccole invasioni dei musei, perché qui abbiamo musei strepitosi che però sono sconosciuti a troppe persone” (oggi la cura impressa alla città da Beppe Sala lo farebbe sorridere di gioia). A un certo punto, nello spirito del personaggio, così come aveva rinunciato al suo cachet (“no grazie, caro amico, li usi bene come ha sempre fatto”), rivolse un pensiero a Franca Rame. “Il premio è un ex equo: se io sono il monumento, lei è il supporto al monumento”. E con un improvviso coup de théâtre si eclissò... via, verso l’Olimpo dei mattatori.
Nella prossima puntata, lo spirito dell’Umanitaria ispira Boccioni.
28. I mesi di Boccioni dentro l’Umanitaria
Dopo la grande mostra a Palazzo Reale di Milano del 2016, e dopo le ricerche di Francesco Oppi, la storia che vi raccontiamo oggi è una vicenda che dovrebbe essere di dominio comune (se ne parla anche su Wikipedia). Quella che il futuro esponente del futurismo ritrova nell’agosto del 1907, dopo il soggiorno nella “ville lumiere”, è una Milano diversa, una città dinamica, aperta, rinnovata; la trasformazione e lo sviluppo dei metodi di produzione sta svuotando le campagne, immettendo in città migliaia di persone che cercano occupazione nelle tante fabbriche e negli stabilimenti che ne hanno modificato l’assetto: è l’altro volto della città, non quello dei caffè lussuosi come in una cartolina della Belle epoque, ma quello di un fermento sociale inarrestabile, quello di un popolo che chiede pane, lavoro e diritti.
Il tumultuoso sviluppo della città moderna e industriale che avanza colpisce il giovane artista che in quegli anni sta cercando la sua dimensione: “Io tento sempre vie più aspre e nuove: il mio spirito non è uniforme e la mia opera è generata dallo spirito. Io cammino sempre, io vado sempre innanzi in lotta continua con me stesso”. In quegli anni (1910-1911) Boccioni sta pensando ad un quadro di vaste dimensioni, un quadro che riprenda e sviluppi i temi di un suo “Autoritratto” (1909), ma nella casa materna in via Adige 23 non c’è spazio per dipingere. Che fare? Abbandonare l’idea ? Destino vuole che la sua ricerca si incroci con il programma di Augusto Osimo e di Alessandrina Ravizza, due figure di spicco della Società Umanitaria, l’istituzione che più di molte altre sta caratterizzando la sua opera a vantaggio dei diseredati, dando a tutti, senza distinzione, gli strumenti per il loro riscatto e la loro elevazione civile.
Ecco spuntare le chiavi per aprire una delle grandi aule della sede di via San Barnaba, dove Boccioni trova gli spazi adatti dove cominciare uno dei suoi quadri più famosi, “La città che sale” (oggi esposto al MOMA di New York), quadro che inizialmente si doveva chiamare “Il lavoro”. L’ambiente è tranquillo, o quasi: in Umanitaria passano centinaia di persone al giorno, i ragazzi e le ragazze delle scuole professionali, gli operai dei corsi serali di qualificazione, uomini e donne in cerca di lavoro agli sportelli degli uffici di collocamento o alla Casa di lavoro per disoccupati; nell’aria si sentono le urla e i rumori dei carpentieri che stanno trasformando il vecchio edificio della Brown Boveri nella Casa del Popolo e all’angolo in fondo alla via si cominciano a tirare su le impalcature per la casa degli impiegati. Ci piace pensare che durante i mesi di lavoro su questo “telone” (come lo chiamava l’artista) Boccioni sia influenzato dal clima che respira, travolto da un immaginario di voci e volti, di fatica e sudore, di pathos e di ideali, che lui trasforma in un’esplosione di energie naturali e artificiali.
La vicinanza dell’artista ai temi dell’Umanitaria non si ferma con la conclusione del quadro. La sua tensione etica e politica lo porta nel 1911 a condividere l’idea di una Prima Esposizione d’Arte libera, una imponente esposizione (oltre 400 le opere esposte) dalle modernissime linee guida, dove ci sarà anche la prima collettiva in assoluto di pittori futuristi (Boccioni, Carrà e Russolo): oltre a “Il lavoro” il nostro espone “La retata” (Care puttane), “Il lutto”, “La risata”. Infine, Boccioni viene stregato dalla personalità della Ravizza, a cui dedica l’immagine di copertina del romanzo “Nota della lavandaia” (1912), dove spicca una testa di Medusa ben poco rassicurante: il mondo sommerso che frequentava scuole, uffici, laboratori di via san Barnaba, con i suoi dolori, la sua disperazione, il suo tormento, lo aveva evidentemente colpito nel profondo.
29. Piccoli registi raccontano... I laboratori audiovisivi nelle scuole della Sardegna
"Imparammo ad usare due nuovi strumenti per esprimere il nostro modo di vedere le cose: la telecamera e il videoregistratore”, raccontava la voce narrante di un altro di quei filmati, “Un quartiere senza strutture", filmati semplici ma densi di contenuti, che a partire dall’anno scolastico 1984/85 anno dopo anno resero un set cinematografico la città di Carbonia (e in anni molto più recenti anche altre sedi dell’Umanitaria) con bambini e ragazzini che scorrazzavano con la telecamera, fermavano i passanti, facevano riprese sulla realtà che stavano vivendo. Un po’ come quello che si sarebbe inventato Nanni Loy, solo che la sua telecamera era nascosta (il suo programma si chiamava “Specchio segreto"), e non aveva obiettivi didattici, ma sociologici...
Il primo audiovisivo si chiamava “Carbonia, storia di un minatore storia di una città” e venne scelto per le tematiche pregnanti che poteva raccontare: la storia di un pastore semianalfabeta, divenuto minatore sfruttato, e infine paladino dei lavoratori come sindacalista, in un lasso di tempo che andava dalla metà degli anni ’30 agli anni ’60. La telecamera si sofferma sul microfono che il nipotino timidamente avvicinava al nonno, guardandolo negli occhi, guardando quegli occhi che ogni tanto diventavano lucidi, cercando di imprimere nella sua di memoria, tutte le vicende, tutte le sensazioni, tutti i racconti che, uno dopo l’altro, il vecchio Vittorio Lai aveva cominciato a narrare, lasciandosi trasportare dalla corrente dei suoi ricordi. “Attraversare l’oceano? E perché mai? Io ho trovato l’America a Carbonia”.
Grazie all’ausilio tecnico di Salvatore Figus, Marino Canzoneri, Antonello Loi, i ragazzini di quella scuola cercarono di cogliere il senso di una vita travagliata: stare in miniera era faticoso, molto faticoso, “il caposquadra non ti dava tregua, ma almeno c’era l’orario fisso di otto ore; fuori, in città, i padroni ti facevano lavorare molto di più”, raccontava Vittorio. I soldi erano pochi, in famiglia si tirava la cinghia e si facevano sempre sacrifici, ma si viveva dignitosamente rispetto agli anni in cui lui aveva vissuto all’aria aperta, nei campi, con l’unica compagnia delle pecore. “Nonno, cosa facevi nel tempo libero?” chiede ad un certo punto il nipote. “Il tempo libero non esisteva: se non mi riposavo, c’era il partito oppure le riunioni del sindacato”. Riuscire a far rispettare i propri diritti non fu facile. ci vollero scioperi, agitazioni, scontri con i carabinieri, ma alla fine anche in Sardegna (era il 1948) i lavoratori riuscirono a farsi garantire turni e condizioni di lavoro meno massacranti: la tragedia di Marcinelle era ancora lontana, ma i lutti in miniera erano purtroppo una costante anche in Italia...
Oggi gran parte di quegli audiovisivi sono a disposizione di tutti sul canale Youtube “umanitariaci”, che nel corso degli anni si è ampliato con ulteriori prodotti audiovisivi, frutto di molte attività didattiche che tutt’oggi, ogni anno, si svolgono nelle scuole della Sardegna: durano poco, una ventina di minuti, e ci raccontano una parte d’Italia che difficilmente si può recuperare nei libri di storia. Quando li guardiamo ricordiamoci che li hanno fatti bambini e ragazzine che, almeno per una volta, si sono sentiti registi in erba, catturati dalla magia del cinema.
Nella prossima e ultima puntata, alcune lettere degli studenti dell’Università delle Arti Decorative di Monza30. Domando perdono dei capricci del mio cervello
L’Università non si trovava a Milano, ma aveva la sua sede a Monza, dove l’Umanitaria aveva ottenuto dalla Casa Reale il permesso di utilizzare una parte della Villa Reale come aule e laboratori. Qui i ragazzi che si iscrivevano all’Università potevano soggiornare per tutto l’anno scolastico nel convitto, tornando in famiglia durante le vacanze estive o per quelle di Natale (per chi poteva permetterselo). Destinatari delle lettere Augusto Osimo, il Segretario Generale, e sua moglie Augusta, che sostituì il marito nella direzione dell’Università dal momento in cui lui si ammalò fino alla sua morte (il 22 luglio 1923).
Sono lettere cariche di pathos (“ieri ricevetti il suo biglietto e sono rimasto felice nell’apprendere che si disturba ancora una volta per pensare a noi poveri orfanelli. Essa con suo marito ha già fatto anche troppo per noi mettendoci nei loro istituti dove potei fare la mia educazione e quella delle mie sorelle, ed io non saprei come ringraziarla. Un saluto dal giovinetto che si ricorderà di lei per il bene arrecato”), lettere di scuse (“l’assicuriamo che mai più mancheremo ai nostri doveri, mai più Le daremo dolore; possiamo assicurarLa che non abbiamo fatto la mancanza per un istinto malvagio, semplicemente in un momento di rabbia”), di proponimenti mancati (“farò sempre di tutto per rendermi degno di tante benevolenze, comportandomi onestamente bene e buono, gentile e bravo con tutti; e continuando ad istruirmi e educarmi, applicando le nozioni ricevute, che mi rimarranno a memoria sino vivo”), e di promesse da mantenere (“Voglio risorgere con nuova vita”).
Ma ci sono anche lunghe lettere in cui i giovani diplomati devono rinunciare al posto di lavoro trovato a fine corso (“perché il medico trovò che la cagione del mio male è data dalla grande quantità di polvere, che ho respirato nello stabilimento. Egregio professore posso sperare che Lei possa raccomandarmi presso qualche conoscente, ond’io potessi guadagnarmi il fare onestamente e stare in salute? ”) e persino quella di una madre, fiduciosa nel percorso professionale del figlio, ma angosciata dalla povertà: “Ringrazio con schietto cuore per il modo col quale è trattato il mio figliuolo in quel nobile convitto e desidererei sapere se egli corrisponde con parità e se si comporta degnamente. Ringrazio per avermi accontentato in un forse estremo desiderio, poiché purtroppo se tutto andrà bene sarà solo una cambiale protratta a breve scadenza”.
Ma tra tutte, quella che ci fa sorridere un po’, è la lettera del 25 luglio 1922, che ha dato il titolo a questa ultima puntata: “Forse avrà avute delle lagnanze riguardo il mio carattere, ma spero che mi avrà perdonato. Mi creda, feci il proponimento per l’anno venturo di migliorare in tutto e dappertutto, e questi propositi gli mantengo fissi dentro nell’animo: domando perdono di tutte le mie difficoltà intellettuali e dei capricci del mio cervello”.
I video racconti
Sono pochi quelli che ricordano quel giorno. Ma chi c’era non ha mai dimenticato il significato di quel discorso, evocativo e commovente come le parole di “Bella ciao”, l’inno della Liberazione e dell’antifascismo. Quello che Piero Calamandrei tenne in Umanitaria sessantacinque anni fa è il discorso che ancora oggi incarna più di ogni altro lo spirito del nostro Paese, perché in quelle parole si combinano i valori risorgimentali ai principi della libertà e della democrazia, auspicando un futuro meraviglioso alla nostra Repubblica.
Dopo il suo passaggio, dopo le sue lotte, Milano non fu più la stessa. Si chiamava Alessandrina Massini, passata alla storia col cognome del marito, Ravizza, e fu un esempio di azione rapida e concreta, che non si lasciò ingabbiare da leggi miopi e dalla burocrazia, per il bene di diseredati, reiette e ladruncoli, quel “quarto stato”, i miserabili, raggiunti, sino a quel momento, solo da una beneficenza elemosiniera. A delineare la sua figura, Giuliana Nuvoli, critico letterario.
Letture di Luca Crovi
Letture di Luca Crovi tratte dal suo ultimo romanzo “L’ultima canzone del Naviglio”, per rievocare l’assistenza della Società Umanitaria ai profughi della Grande guerra.
Quando Piero Calamandrei parlò di Costituzione in Umanitaria (1955)
Il suo intervento in Umanitaria non fu casuale, ma un appuntamento fortemente auspicato. A dieci anni di distanza dalla fine della dittatura, infatti, un gruppo di studenti universitari aveva sentito il bisogno di chiamare alcuni dei più illustri cultori del diritto a spiegare la Costituzione italiana, in modo che si potessero illustrare, in modo accessibile a tutti, i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita sociale. Per inaugurare il ciclo dei sette incontri fu scelto lui, uno di quelli che – nell’ordine – era stato tra gli esponenti di “Giustizia e Libertà”, aveva collaborato a movimenti clandestini durante la Resistenza e partecipato, come rappresentante del Partito d’Azione, alla Costituente: insomma, Piero Calamandrei.
Oggi sono pochissimi quelli che erano lì quel 26 gennaio del 1955. Ma chi c’era non ha mai dimenticato il Salone degli Affreschi stracolmo di una massa di giovani e giovanissimi (c’erano anche tanti liceali), tutti raccolti in un reverenziale silenzio. Colorito dalla fresca parlata toscana, Calamandrei incantava la platea: “La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro l’impegno, lo spirito, la propria responsabilità”. Fu un discorso breve, semplice, chiaro, pervaso di una grande passione civile, a tratti anche commovente.
Una particolarità: il discorso venne poi inciso in un 33 giri, ormai introvabile, per la Collana Letteraria della Cetra (le parole introduttive erano di Riccardo Bauer, neo presidente dell’Umanitaria). Ma quell’audio per noi dell’Umanitaria è ancora la base propedeutica di ogni incontro di educazione civica per le scuole.
Ecco le parole con le quali Silvia Calamandrei ha voluto regalarci un commento al famoso discorso di suo nonno.Giuliana Nuvoli ricorda Alessandrina Ravizza, la signora dei disperati
Lei era diversa. Con quegli occhi penetranti che incutevano rispetto, non aveva paura di nulla, nemmeno di scontrarsi con la disperazione più nera, di accovacciarsi tra prostitute e ammalate di sifilide e di prendere sotto la sua protezione i piccoli manigoldi che preferivano il coltello al gioco della palla. Bastava poco. Uno sguardo, un sorriso luminoso e una stretta di mano, “ch’era di pietà, fiducia e promessa insieme”. Perché le promesse, Lei, le manteneva, a costo di mettere in gioco la propria salute, in nome dei diritti naturali universali, propri di ogni essere umano. “Quando giunse alla perfezione di essere divenuta una sola cosa col dolore e colla miseria del popolo, morì. La sua missione era compiuta”, così la ricordava il Sindaco di Milano Emilio Caldara, durante la cerimonia al Cimitero Monumentale di Milano per la traslazione delle sue ceneri, a un anno dalla scomparsa (il 22 gennaio 1915).
Una vita estremamente dura la sua, ma ricca di soddisfazioni. Una vita trascorsa a farsi carico del dolore degli altri, ossessionata dai tormenti, dalle fatiche, dalla disperazione dei più umili, negli anni in cui il movimento socialista cominciava le sue battaglie sociali contro le storture di una società che permetteva la miseria più ignobile, da quella dei piccoli vagabondi (migliaia) a quella delle giovani donne gettate sulla strada, dopo anni di subdola violenza tra le pareti domestiche.
Ricordare oggi Alessandrina Ravizza (la donna a cui è intitolato il parco vicino alla Bocconi - ma non lo sa nessuno) rappresenta un tributo ad una delle poche donne di coraggio verso cui questa città ha un debito di riconoscenza difficilmente calcolabile, una donna passata alla storia “per l’immensa efficacia del fare il bene senza perdere tempo in infinite formalità”. Non c’era luogo, non c’era via di questa città, non c’era barbone o senzatetto che, tra la folla, non riconoscesse il suo incedere (che negli anni si sarebbe fatto incerto), che non fosse oggetto delle sue attenzioni.
“Sempre lanciata nella vita, come in una corsa impetuosa, a passo di bersagliere”, Lei – assistente sociale ante litteram – visitava gli ospedali male odoranti, con le lunghe corsie dove si moriva e si guariva fianco a fianco; andava a cercare le prostitute malate nei sifilicomi; parlava coi piccoli ladri nei riformatori, nelle carceri, nelle loro tristi famiglie; guardava in faccia i barboni per le strade e sentiva fame e freddo con loro. E per tutti questi infelici, poco alla volta, riuscì a creare una serie di istituti di cura, di ricovero, di prevenzione e di educazione: dalla Cucina dei malati poveri all’Università Popolare, dalla Scuola Laboratorio del sifilocomio di via Lanzone alla Casa di Lavoro per disoccupati voluta dalla Società Umanitaria.
Insomma, una figura antesignana della moderna concezione della politica sociale, a cui va la nostra riconoscenza, il nostro rispetto, la nostra ammirazione.