Grandi interpreti al Teatro del Popolo

A cura di Claudio A. Colombo

Quando si parla di rappresentazioni teatrali al Teatro del Popolo (nel complesso, dal 1911 al 1926, si tennero oltre 1.400 spettacoli!) non c’è che l’imbarazzo della scelta… Il parterre de rois di grandi attori, registi e drammaturghi che si avvicendarono sul palco di via Manfredo Fanti, oppure davanti alla platee dei piccoli teatri rionali (prima esperienza di teatro decentrato in Milano, negli anni Venti), fu a dir poco straordinario.

L’apertura della stagione teatrale del 1911 viene affidata alla Compagnia Ruggeri-Borelli, con “Tristi amori” di Giacosa (25 maggio, in mattinata). Ma è con “La cena delle beffe” di Sem Benelli (3 dicembre), che la città comincia a rendersi conto che l’idea di un teatro riservato agli operai (anche se presto frequentato anche da maestre, modesti impiegati, bottegai e tipografi) non è un azzardo, ma una scommessa vinta in partenza. Lo si capisce anche dalle parole dello stesso Benelli quando il grande drammaturgo, già all’apice del successo, si trova ad inaugurare gli spettacoli serali con “La Maschera di Bruto” (17 dicembre 1911): “La sera che ebbi la consolazione di intervenire alla rappresentazione di una delle mie opere rimane fra i miei ricordi più belli. Nulla mi ha mai raffigurato così potentemente la sete dell’umanità, di sapere, di indagare, di soffrire per il bene e per il meglio”.

Benelli non è l’unico ad emozionarsi davanti a quella folla (il teatro poteva contenere duemila persone). Lo si capisce leggendo le dediche che altri famosi interpreti (Ermete Zacconi, Ruggero Lupi, Virgilio Talli, Ruggero Ruggeri, Ettore Paladini) lasciano sulla propria fotografia a ricordo di serate indimenticabili, che rendono tangibile lo sforzo organizzativo ed educativo dell’Umanitaria – “andare alla plebe e farla diventare popolo” – chiamando le compagnie più importanti, abituate a recitare nei grandi teatri di prosa, in cospetto dei pubblici più eleganti, a portare la loro arte a persone umili, totalmente digiune di prosa, di letture, di arte vera.

Ben presto gli artisti fanno a gara per entrare nel calendario teatrale; il pubblico è entusiasta e comincia a riconoscere per strada gli artisti che non perde l’occasione di seguire sul palco e gli si affeziona. Persino i teppistelli di strada, persino “certi tipi dalla faccia patibolare che incontravamo talvolta rincasando la sera da teatro – ricordò Maria, la figlia di Edoardo Ferravilla, indimenticabile interprete del teatro dialettale (come nel “Tecoppa brumista”, 1914) – Una notte la carrozza che ci portava a casa venne fermata da un gruppetto di gente losca. Ci intimarono di scendere. Ma quando riconobbero il babbo gli fecero le loro scuse, e poi ammonirono il brumista: “Lo potevi ben dire subito che era il Ferravilla!”.

In fatto di prosa, furono ospiti dell’Umanitaria le maggiori compagnie presenti su piazza, con un repertorio per la maggior parte “nostrano”, ma che non dimenticava autori d’oltralpe, in primis Ibsen, Bataille, Sudermann, Dumas. Sotto i riflettori, il meglio del meglio, con la Compagnia De Sanctis, la Compagnia Emma Gramatica, la Compagnia Talli-Melato-Giovannini, la Compagnia Zacconi, la Compagnia Novelli, la Compagnia D’Amora-Lupi e infine, negli ultimi anni, con la Compagnia stabile del Teatro del Popolo diretta da Ettore Paladini.

Il 16 febbraio 1926, l’ultimo spettacolo, con “Il campanello d’allarme” (nomen omen). Il regime liberticida mussoliniano cominciava ad intaccare anche la libertà d’espressione.