A metà degli anni ’50, l’epoca in cui l’Umanitaria si impersonificava in Riccardo Bauer, Nino Chiappano, Giovanni Romano (il progettista del nuovo apparato scolastico dell’Umanitaria), c’era una specie di orgoglio da parte dei docenti a insegnare alla Scuola del Libro, e questo sentimento di appartenenza a una scuola che aveva una tradizione estremamente democratica, che era riuscita a superare vicende politiche nel tardo ottocento piuttosto incresciose e difficili, dava un prestigio enorme alle persone, che facevano la fila per entrare a farne parte. Era una piccola società direi quasi elitaria per quanto riguardava la pedagogia, la didattica, lo spirito di ricerca.
Direi che non si può nemmeno fare un paragone per metodo e impostazione didattica rispetto alle scuole di quel periodo, quelle di formazione artistica in ambito analogo, che erano soprattutto scuole di mestiere. Invece, la Scuola del Libro era un’altra cosa, perché all’Umanitaria si concedeva una libertà assoluta ai docenti che avevano per la prima volta la possibilità di sperimentare un ampio campo di possibilità. I docenti erano motivatissimi, e gli studenti frequentavano con entusiasmo. Sembrava quasi di rivivere un’atmosfera ottocentesca per la dedizione reciproca da parte di docenti e studenti, tra i quali si creava un rapporto psicologico forte, quasi di dipendenza, indifferentemente dalle ideologie politiche o di partito.
Per quanto mi riguarda, io mi sono trovato estremamente libero nel portare alla Società Umanitaria alcune esperienze che avevo fatto negli Stati Uniti, la cui origine era germanica, di ex docenti del Bauhaus che avevano insegnato a Chicago. Queste esperienze, di cui la più importante è Hugo Weber, io le ho trasferite all’Umanitaria modificandole in vari punti, rendendole più mediterranee, meno nordiche; con grande interesse di tutti, anche dei consiglieri, persino di Giovanni Romano, l’architetto che stava ultimando la ricostruzione dell’Umanitaria, che ricordo più di una volta in classe seduto in un angolo ad ascoltare le mie lezioni.
Ricordo come fosse ieri quando lo stesso Romano, d’accordo con Riccardo Bauer, nel 1954 mi invitò a coordinare un corso professionale di fotografia. Iniziai il corso con l’esercizio dei fotogrammi durante il quale gli allievi compongono sulla carta fotosensibile pezzi di plastica, frammenti di vetro, piccoli oggetti d’uso quotidiano. Presto mi resi conto che lo spazio a disposizione non aveva nessun potere attrattivo agli occhi degli studenti, non esisteva se non come semplice supporto. Intuii di botto che il gessetto agitato sul piano di cemento spalancava la mente alla visione dello spazio.
Per fortuna eravamo in una specie di fabbrica delle idee: ordinai al laboratorio di falegnameria della scuola un notevole numero di piani di lavoro sul modulo 90×180 e di cavalletti, che accostati tra loro erano in grado di offrire agli studenti un ampio spazio operativo. Dal gessetto bianco passai al carboncino. In questo modo diedi avvio alla mia esperienza di docente ponendomi a lavorare in mezzo ai ragazzi, come un qualsiasi discente.
Man a mano che le stesure crescevano a coprire i piani, i fogli venivano ordinati sul pavimento per zone personali. La distesa creava un effetto di magma impressionante, che cominciai a sfoltire eliminando i lavori compromessi dalla centralità compositiva, fosse questa a macchie per uso del carboncino posto di piatto, o per linee tracciate con andamenti iterati, o per forma inconscia centripeta.
Ne risultò una “prova” di gruppo inconcepibile, perché di fatto difficilmente ipotizzabile, risultato di una sperimentazione “a braccio”, senza regole, che i ragazzi apprezzarono proprio perché inconsueta, originale, fuori dall’ordinario: un’esperienza didattica che per la Scuola del Libro era all’ordine del giorno.
Un must di cui dobbiamo essere riconoscenti, perché aprì la strada ad una nuova concezione della progettazione visiva.
A cura di Michele Provinciali