Uno degli spazi più sfruttati in Umanitaria (oltre al magnifico Salone degli Affreschi) è quello che abbiamo chiamato Auditorium: quello che ai tempi delle nostre scuole professionali era una palestra attrezzata, è stato poi trasformato in uno spazio polifunzionale, dove ospitare incontri, convegni, concerti, attività didattiche con le scuole, alcuni corsi Humaniter per il tempo libero.
Gremito è sempre molto gremito, oggi come ieri, quando – una ventina d’anni fa – l’Auditorium fu adibito e adattato, con il suo palco e le luci soffuse, anche a spazio scenico, ideale per piecè teatrali. Tra i tanti interpreti che si misurarono su quel palco (da Franca Rame a Laura Curino), ci piace ricordare una attrice a cui siamo molto legati (e non solo perché è una nostra socia benemerita): Ottavia Piccolo. “Calarsi in quel ruolo non fu facile. Soprattutto dopo che mi recai a Buenos Aires, nel 1999, e incontrai alcune di quelle mogli, nonne, sorelle, quelle donne che per chi conosce la storia dell’Argentina sono le Madri di Plaza de Mayos. Donne che non si sono mai arrese, che dal dolore della perdita hanno saputo tirare fuori una forza straordinaria, implacabile come la fame di verità. Conoscevo il loro coraggio, la loro costanza, la loro determinazione, ma quando mi trovai accanto a loro, tra di loro, compresi nel profondo che quelle donne erano davvero inarrestabili, come delle locomotive lanciate a tutta velocità verso la loro meta. Dopo averle abbracciate, dopo aver guardato nei loro occhi, le parole che dicevo in scena hanno come assunto un significato diverso, le vivevo e le sentivo in maniera più intima, ancora più sofferta”.
Tratto da un romanzo/verità di Massimo Carlotto, “Le irregolari”, messo in scena con la regia di Silvano Piccardi, lo spettacolo (settembre 2000) si chiamava “Buenos Aires non finisce mai”, un monologo dedicato all’immensa tragedia di generazioni cancellate dalla terra, oltre 30.000 donne, uomini e bambini finiti nel nulla, la maggior parte ingoiati dall’oceano, nel silenzio colpevole della comunità internazionale (come raccontava nello stesso anno “Garage Olimpo”, il film/denuncia diretto da Marco Bechis).
Sul palco spoglio, una sedia, un tavolo e lei. Con una intensità toccante e struggente, Ottavia si immedesimava nella vita/non vita di una donna argentina, il cui marito era stato arrestato nel 1978, l’anno dei campionati di calcio, perché dissidente o presunto tale. Ci raccontava il suo calvario: prima il dolore incessante, poi la ricerca affannata, infine la presa di coscienza e il terrore, il terrore che il marito fosse diventato uno delle migliaia di desaparecidos scomparsi durante la dittatura militare. Quella ferita sempre aperta, la ferita di un vuoto che non si riesce a colmare, anima una protesta che non conosce fine, la protesta di decine e decine di donne che come l’indomita protagonista non si arrendono, e ogni giovedì si trovano a sfilare, settimana dopo settimana, mese dopo mese, davanti alla residenza del dittatore Jorge Rafael Videla, con le foto di padri, figli, nipoti scomparsi, di cui non si è più saputo nulla.
Se oggi, quando pensiamo al 1978 non lo ricordiamo soltanto come l’anno dei mondiali, forse lo si deve anche a quel libro di Carlotto, e a quello spettacolo tragico ed epico, che ebbe la sua prima assoluta sul piccolo palco di una grande istituzione.