Quell’estate a teatro, nei chiostri, rileggendo Marquez

Sono passati più di venticinque anni da quando Ricardo Fuks, regista argentino da poco approdato a Milano, un passato professionale da esule in Inghilterra Israele e quindi Italia, propose all’Umanitaria un laboratorio “multietnico” dove raccogliere e mettere in rete esperienze artistiche e culturali, metodi e tecniche di professionisti o neoprofessionisti del teatro, provenienti da diversi paesi e residenti a Milano: un melting pot tra giovani teatranti (attori, registi, scenografi, scrittori) che avrebbe trovato in “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez un terreno di espressione e di confronto ideale. Un tipo di esperienza che a livello teatrale aveva già un suo modello in diversi paesi del mondo, a cominciare dall’inimitabile Peter Brook e dal suo Centro internazionale di creazioni teatrali a Parigi.

Il nostro spettacolo si chiamava MACONDO, come il regno del possibile, il luogo magico che la penna di Marquez aveva creato perché vi accadessero cose che nella vita normale non potevano certo trovare posto. Erano gli anni in cui l’Umanitaria aveva ospitato il convegno “Le matite spezzate” (titolo preso in prestito dal film “La notte delle matite spezzate” sulla repressione violenta del regime del generale Videla in Argentina), si invitavano importanti personaggi di livello internazionale come Isabel Allende, Rigoberta Menchù, Adolfo Perez Esquivel (Nobel per la Pace 1980) e ci si era caratterizzati anche come centro di formazione specialistica per attori, grazie ai seminari tenuti da Leo De Benardinis, Gabriele Vacis, Laura Curino, Marco Baliani, Pierce Ibbotson, Mamadou Dioume, Adriana Innocenti, etc.

MACONDO, quindi, nasceva e poteva germogliare su un terreno assai fertile.

Quando si sparse la voce, ci fu anche un piccolo malinteso, perché non pochi nostalgici chiedevano se stava riaprendo il Macondo, uno storico locale milanese di fine anni ‘70 particolarmente noto per la sua connotazione libertaria, alternativa persino ai centri sociali storici, nel quale aveva fatto capolino anche un certo Allen Ginsberg. Poi, piano piano, iniziarono ad arrivare curricula e richieste di partecipazione di giovani attori, drammaturghi e sceneggiatori, scenografi, registi, disegnatori, teatranti di aria estrazione, italiani da nord e sud e poi da tutto il mondo, dal Portogallo alla Francia, dalla Spagna al Nicaragua e al Venezuela, dalla Romania all’Albania, dal Senegal alla Costa d’Avorio agli Stati Uniti.

In poco più di un mese, il gruppo era formato; seguirono mesi di laboratorio, quasi ogni giorno, lavorando fianco a fianco, creando un interscambio di concezioni, esperienze e interpretazioni sui temi della vita che riguardano tutti, ad ogni latitudine, e che ruotano attorno a quattro momenti chiave dell’esistenza: nascita, matrimonio/unione, viaggio/migrazione, morte. Questo era il senso di MACONDO e di quella strana compagnia Brancaleone, che delle differenze, delle diseguaglianze, del multilinguismo traeva la propria forza, rendendolo il proprio segno distintivo.

Chi si trovò in Umanitaria in quell’estate del 1995, non l’ha dimenticato. L’atmosfera surreale dei chiostri al buio, trasformati in un palcoscenico naturale modulare (ogni chiostro una scena) durante un saggio teatrale che a molti sembrava un vero spettacolo, dove le suggestioni, le storie, le luci e le ombre della vita dei personaggi sembravano intrecciarsi con le catene, con le pietre, con le colonne e le architetture di una ambientazione quasi senza tempo: l’obiettivo era stato raggiunto.

Il valore di quell’iniziativa (che l’anno successivo ebbe anche un momento più ufficiale, con l’inserimento nella compagnia di alcuni di coach esterni come Mamadou Dioume e Antonio Testa e di attori più esperti, quali Coco Leonardi e Madeleine Mbita Nna) stava nella sua stessa idea fondante, nello spirito originario contenuto nelle sue stesse premesse. In quelle pagine, in quei volti, in quella narrazione itinerante abbiamo incontrato e conosciuto un po’ di più il mondo, le tradizioni e le consuetudini di tanti paesi rappresentati, ritrovando – per dirla alla Gianni Minà – lo spirito del grande “Gabo”. Un inno alla fratellanza e all’universalità di popoli e genti.

A cura di Claudio A. Colombo